Ad Ascona e San Bernardino, due opere emblematiche di un passaggio epocale, tra recupero dell’esistente e tutela degli assetti territoriali
L’1 aprile Mario Botta ha compiuto 80 anni, continuando a progettare e a costruire con lo stesso vigore di alcuni decenni fa. Gli altri maestri dell’architettura ticinese, tutti molto più anziani di lui, sono scomparsi negli scorsi anni. Si è rotta la singolare condizione ticinese, che vedeva una folta schiera di allievi lavorare sul territorio potendosi confrontare non solo con le opere dei maestri, ma direttamente dialogando con loro.
Botta, con Aurelio Galfetti, Luigi Snozzi, Livio Vacchini, Flora Ruchat, sono stati la seconda generazione di ticinesi che – dopo quella di Rino Tami, Peppo Brivio, Franco Ponti, Tita Carloni – ha introdotto l’architettura ticinese nella modernità. Una modernità scoperta in ritardo, molti decenni dopo gli altri paesi europei, compresa la Svizzera tedesca. Per questo è stata una modernità radicale, ispirata alle opere dei fondatori del moderno, che si è fatta conoscere in tutto il mondo.
Una nuova fase dell’architettura ticinese
Scomparsi i maestri, si è aperta una nuova fase, interpretata da architetti di più generazioni. Da coloro che sono stati, negli anni settanta del secolo scorso, i primi allievi dei maestri, fino ai più giovani. La generazione più presente nello scenario professionale è quella degli architetti che la critica all’inizio del nuovo secolo considerava “i giovani”, e che oggi hanno tra i 50 e i 65 anni. Si tratta degli “architetti colti”, quelli che partecipano ai concorsi, li vincono e costruiscono le opere pubbliche. La precisazione è necessaria perché altri professionisti si dedicano al mercato immobiliare e non producono opere degne di particolare nota.
Rispetto ai linguaggi dei maestri, tra di loro diversi ma con caratteri comuni – la gravità, la riduzione formale, l’atteggiamento contestuale, l’urbanità – la ricerca degli architetti ticinesi si è sempre di più allargata ad esperienze e mondi altri. Ciò è avvenuto fin dall’inizio del nuovo secolo, ed è stato anche favorito dall’apertura internazionale dell’Accademia di Mendrisio. Molto sinteticamente, gli architetti meno giovani, formati a Zurigo e a Losanna, portano avanti rigorose ricerche tecniche e spaziali, mentre quelli formati a Mendrisio sperimentano percorsi figurativi nuovi.
In linea di massima, tuttavia, una qualità comune, fortemente radicata nella storia della modernità ticinese, distingue ancora gli architetti ticinesi dagli architetti non solo di altri paesi, ma anche da quelli degli altri cantoni svizzeri. Sono la chiarezza e l’ordine concettuale delle piante e la loro coerenza con le sezioni, nonché la razionalità degli impianti complessivi. Qualità non immediatamente percepibili, non epidermiche, stabilmente presenti in quasi tutti i progetti.
Maggiore attenzione al recupero del patrimonio
Il fatto nuovo che oggi comincia ad introdursi nella pratica progettuale è il recupero del patrimonio edilizio esistente e, più in generale, l’atteggiamento rivolto alle risorse ambientali. Si tratta di una novità importante, perché la cultura architettonica più diffusa è ancora “modernista”, considera l’esercizio progettuale di trasformazione dei manufatti esistenti come un mestiere di minore valore rispetto alla progettazione del nuovo.
Anche gli elevatissimi standard di sostenibilità energetica imposti dalla normativa cantonale hanno contribuito alla permanenza dell’atteggiamento “modernista”, obbligando – soprattutto nella progettazione degli edifici pubblici – alla demolizione di molti manufatti, invece che al loro recupero. La maggior parte dei concorsi banditi negli ultimi anni per ampliamenti di edifici scolastici e per altre attività hanno previsto l’abbattimento degli edifici esistenti, anche se recenti, valutato come più conveniente rispetto alla loro trasformazione.
La maggiore apertura rispetto al recupero dell’esistente, alla quale stiamo oggi assistendo, è stata favorita, oltre che dalla cultura più generale del risparmio energetico, dalla questione più propriamente urbanistica, dalla consapevolezza degli sprechi provocati dalla diffusione insediativa e dal rilievo degli obiettivi imposti dalla legislazione confederale sul contenimento del consumo di suolo.
Due progetti esemplari della nuova tendenza
I due progetti recenti qui presentati – redatti da architetti della medesima generazione, quella dei cinquanta/sessantenni – sono esemplari della nuova tendenza. Molto diversi nel linguaggio, hanno in comune l’impegno verso l’assetto esistente, che rimane la vera sfida di fondo della cultura architettonica ticinese. Per niente conservatori, entrambi dimostrano come sia possibile, partendo dall’assetto territoriale e dal materiale edilizio esistente, produrre condizioni di grande novità nel paesaggio costruito e, insieme, realizzare nuovi spazi dall’utilizzo evoluto.
L’intervento di Ascona riduce l’occupazione di suolo al minimo, utilizzando lo spazio residuale di un complesso di antica fondazione. Quello a San Bernardino ristruttura e amplia un edificio esistente cambiandogli i connotati sia dal punto di vista funzionale che paesaggistico.
La mensa del Collegio Papio ad Ascona, di Giraudi Radczuweit
Lo spazio dell’hortus conclusus, costruito insieme al complesso edilizio del Collegio – fondato dal cardinale Borromeo a fine Cinquecento -, è protetto da muri che delimitano la sua geometria, contrapposta all’andamento curvilineo dei muri che delimitano i preesistenti percorsi nell’intorno. Tra i due sistemi di muri permangono spazi residuali. Uno di questi diventa la nuova mensa e le sue mura diventano le mura continue del nuovo edificio. La nuova mensa non modifica la topografia preesistente.
La copertura diventa il tema attorno al quale viene concepito il progetto. La sfida è di coprire lo spazio lasciandolo libero da strutture portanti intermedie. Le travi di metallo reticolare dividono in spicchi triangolari il cielo della mensa, poggiando sui muri in cemento armato eretti dietro ai muri di pietra. L’esito spaziale del rammendo diventa sorprendente quando ognuna delle travi triangolari viene sollevata e fermata dalle falde. La luce penetra da nord e invade l’aula.
Il riferimento più eloquente, suggerito dagli stessi autori, sono le opere di Jørn Utzon, ove la qualità dello spazio è risolta con l’invenzione di una copertura che conferisce all’aula un carattere unico. Nello scenario dell’architettura ticinese degli ultimi decenni il lavoro di Sandra Giraudi – associata a Felix Wettstein dal 1995 al 2010 e successivamente a Thomas Radczuweit – ha un posto particolare. La sua ricerca, ricca di suggestioni lontane dal Ticino, evita di adeguarsi ai modelli linguistici più comunemente praticati nella regione.
La mensa di Ascona è un’architettura silenziosa, nascosta. All’esterno del perimetro, il nuovo edificio collocato dietro ai muri che delimitano i percorsi non è visibile. Per scorgerne la prospettiva è necessario entrare nel recinto murato del Collegio e accedere al giardino da nord. Questa qualità conferma il riferimento al rammendo che cuce i lembi di un tessuto strappato: il rammendo magistrale, infatti, non risulta appariscente.
Di notte si accendono le falde disegnate da una trama, anch’essa triangolare di led, che riproduce il reticolo della struttura portante di metallo. Il tessuto che confina lo strato d’isolamento del tetto nasconde i corpi illuminanti, il cui chiarore si diffonde lungo la superfice del tetto, conseguendo un effetto opalino.
L’ingresso alla mensa è collocato nel lato corto del triangolo ed è protetto da una tettoia, la cui altezza interna è limitata in modo da ottenere la compressione necessaria per introdurre alla sorprendente spazialità dell’aula. Tutte le attività di servizio sono dislocate al piano interrato, il cui accesso è risolto da una lunga rampa che corre lungo il lato esterno e curvilineo dell’aula. L’unica apertura nel muro perimetrale, dalla quale si traguarda il lago, è una piccola bucatura collocata dove un tempo c’era una porta.
La stazione della Polizia cantonale a San Bernardino, di Meyer Piattini
Il piccolo edificio situato lungo l’ A13 all’imbocco della galleria del San Bernardino è diventato, dopo l’intervento di ristrutturazione e ampliamento progettato da Lucas Meyer e Ira Piattini, un punto di riferimento nel paesaggio dinamico dell’autostrada. Il programma, esito di un concorso del 2017, prevedeva di accettare le peculiarità del fabbricato preesistente, lineare e articolato, rafforzandone il carattere e l’immagine architettonica con modifiche sia distributive che volumetriche.
Il progetto ha valorizzato l’articolazione distributiva, intervenendo in pianta soprattutto sull’area dell’entrata ed estendendo il volume sia in orizzontale che in verticale. L’erezione della torre ha conferito alla sede della Polizia cantonale una riconoscibilità a scala territoriale, indicando al viaggiatore l’uscita di S. Bernardino. Modificandone le proporzioni, sono mutati la dimensione e il rilievo dell’edificio. Riconosciuto dagli stessi autori come preciso riferimento, pensiamo alla stazione dei pompieri a Columbus, nell’Indiana, costruita da Robert Venturi e Denise Scott Brown nel 1967, che rappresenta una tappa importante nella storia dello studio americano. La torre dell’edificio di Columbus conferisce al piccolo fabbricato l’importanza simbolica necessaria al rilievo civile, in quel caso, dell’attività dei pompieri. La composizione del fronte e dei volumi dell’edificio – anch’esso collocato sul bordo di una strada d’intenso traffico – è giocata, anche a Columbus, sull’equilibrio tra orizzontale e verticale. Tra l’altro, i progetti di Meyer e Piattini rivelano in generale un atteggiamento disinibito e a volte ironicamente spregiudicato verso i canoni della modernità e della sua tradizione, analogo a quello raccontato negli scritti di Venturi.
A San Bernardino, l’edificio preesistente degli anni settanta era rivestito in lastre di eternit e scarsamente isolato. La vecchia pelle viene sostituita con una struttura in legno composta da pannelli modulari isolati tipo “sandwich” e successivamente rivestita da doghe di larice, il cui criterio di posa per fasce mira ad accentuare l’orizzontalità dei fronti. Nella fascia dei serramenti le doghe sono verticali, mentre nella fascia piena (tra una fila e l’altra degli stessi) esse sono orizzontali. L’effetto stratificato è ulteriormente accentuato dai profili in lamiera di zinco ossidata, che riprendono il filo dei davanzali e dei cielini delle bucature, e che servono anche da gocciolatoi a protezione della facciata. Questi profili lineari avvolgono orizzontalmente tutte le articolate parti dell’edificio, legandole fra loro e conferendo all’insieme un effetto di stabilità e calma, contrapposta alla rumorosa dinamicità dell’autostrada.
Si tratta di un punto di riferimento nel paesaggio autostradale anche perché appare come il primo edificio – nel percorso da Bellinzona a Coira – appartenente alla cultura architettonica grigionese, considerato che la cultura della costruzione della Val Mesolcina appartiene ancora alla regione ticinese, anche se la valle di lingua italiana fa parte del Canton Grigioni. L’appropriata scelta del rivestimento in legno – motivata anche con la reperibilità e l’opportunità di lavorare il materiale in loco – contribuisce a stabilire questa appartenenza, insieme ad un dettaglio importante come il disegno dei serramenti, che richiama la croce tipica delle case tradizionali grigionesi.
Il lungo ampliamento verso sud dell’edificio viene sapientemente concluso con una copertura più elevata, rivelando la capacità dei progettisti di controllare in modo preciso e colto una composizione così complessa. L’esito finale dell’intervento è anche quello di avere liberato l’edificio preesistente dal carattere un po’ triste e “poliziesco” che lo caratterizzava, radicandolo nello splendido paesaggio tra le cime innevate.
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Last modified: 31 Maggio 2023