I molteplici usi e i ripieghi privati: tra la propaganda per liberarsi della westoxification ed esempi di riappropriazione informale e creativa
TEHERAN. Quale spazio pubblico per i 12/14 milioni di abitanti della capitale della repubblica islamica dell’Iran? Da un lato, lo spazio pubblico che risponde ai criteri e alla morale del governo, dall’altro una serie di modalità creative da parte dei cittadini per bypassare le rigide norme che regolano il comportamento. Sulla collina di Abbas Abad dove l’ultimo Shah ipotizzò di realizzare lo Shahestan Pahlavi (la città dei Re), centro amministrativo e culturale della propria dinastia, nonostante la Rivoluzione ha preso forma il principale distretto culturale della capitale. Qui sorgono, tra gli altri, la grande Mosalla – perennemente in costruzione – il Museo della Sacra Difesa e il Book Garden, probabilmente la più grande libreria del mondo, edifici di dimensioni extralarge che si fronteggiano in uno spazio altrettanto grande, dilatato, uno spazio a misura di manifestazioni pensato per esse abitato da folle e non dalla singola persona.
Unica eccezione di questo sistema oltremodo celebrativo è il Tabiat bridge – progettato da una giovanissima Leila Araghian – infrastruttura multitasking, ponte abitato che si sviluppa su tre livelli: un luogo dove correre, camminare, godere dei panorami o sostare in uno dei bar. Si tratta di un progetto intelligente che nella migliore tradizione persiana riesce a coniugare forma tecnica e spazio pubblico, manufatto di natura ingegneristica e qualità architettonico-urbane.
Ad ovest è invece Chitgar, nuova espansione urbana per la classe media, altro luogo emblematico che rappresenta il tentativo da parte dell’autorità di definire uno spazio pubblico contemporaneo in una città che ne è decisamente carente. Il progetto nel suo insieme ha come riferimento modelli di urbanizzazione nord europei, non solo da un punto di vista della pianificazione ma anche dell’immagine complessiva; sembra di essere in un luogo altro, che non appartiene alla storia, alla geografia di questo paese. Si organizza infatti attorno al Lago dei Martiri della Rivoluzione, un bacino artificiale di 132 ettari circondato da una cintura verde con servizi, ottenuto, attraverso ingenti opere idrauliche, dirottando le acque del Kan rud, uno dei corsi d’acqua che scendono dall’Alborz.
Di fronte a questo nuovo paesaggio artificiale, ben progettato, ci si domanda però che senso abbia l’operazione decisamente poco sostenibile in un paese in cui l’acqua non solo scarseggia ma evapora, dunque in genere scorre velata. È forse un grande parco a tema, dove distrarsi, senza peraltro potersi bagnare e illudersi di vivere in un altrove?
Qui, inoltre, è stato realizzato l’Iran Mall, 1 milione di metri cubi in competizione con i mall emiratini. Nonostante dunque la continua propaganda del regime contro i modelli occidentali e la cosiddetta “westoxification”, o “western-intoxication”, molti dei riferimenti, non solo urbanistici ma culturali, scimmiottano la contemporaneità americana o quella di Dubai, dove gli iraniani benestanti si recano periodicamente per concedersi pause di libertà.
Gli spazi di riappropriazione informale e creativa
Vi sono poi una serie di spazi di riappropriazione informale e “creativa” da parte dei cittadini, che riportano lo spazio pubblico all’interno dello spazio privato. A seguito delle restrizioni sul comportamento introdotte dalla Rivoluzione lo spazio urbano viene infatti percepito come poco sicuro e la vita sociale è tornata a rinchiudersi tra le mura domestiche. Tra le restrizioni, oltre all’obbligo del velo per le donne, va ricordata la chiusura degli hammam, luoghi di socializzazione per eccellenza; il divieto di ascoltare musica, il divieto per le donne di cantare; il divieto di festeggiare nei locali pubblici compleanni, matrimoni e ricorrenze varie mescolando persone dei due sessi che non siano parte della famiglia.
Succede allora che soprattutto le donne e le nuove generazioni convertano gli spazi domestici per svolgere attività senza controllo. Alcune case si trasformano in gallerie d’arte, saloni di bellezza, parrucchieri, sartorie, botteghe di una economia informale. Alcune cantine possiedono stanze insonorizzate dove ascoltare musica e suonare.
L’appropriazione dei tetti
Anche le coperture delle abitazioni sono state oggetto di forme di appropriazione creativa perché il tetto, nella storia della cultura dell’abitare di questo popolo ha, da sempre, un ruolo di rilievo; non è un semplice lastrico solare bensì uno spazio dove passare le lunghe calde notti d’estate. Nelle case tradizionali spesso i tetti erano collegati tra loro, e si potevano incontrare i vicini. Nel labirinto del tessuto della città islamica esisteva dunque una quota alta con spazi dove socializzare. Sui tetti si sono svolte le manifestazioni per denunciare il regime dello Shah nel 1979 e, sempre sui tetti, nel 2009 sono partite le proteste dell’onda verde per la contestata elezione di Ahmadinejad e molte di quelle dell’oggi. Sui tetti sono istallate milioni di antenne paraboliche che connettono gli iraniani con il resto del mondo. Fino a pochi anni fa le antenne paraboliche venivano sequestrate dai basiji e prontamente ricomprate dagli abitanti ma, oggi tutti sul tetto ne hanno una.
Infine, in questi ultimissimi anni stanno nascendo dei condomini che, in modo pianificato, introducono all’interno una serie di spazi condivisi a uso degli inquilini: sale per organizzare feste e incontri con palestre, piscine e campi da gioco: a tutti gli effetti forme di cohousing ai tempi della Repubblica Islamica dell’Iran. E infine in questa città caotica dal traffico infernale, inquinatissima – tanto che a fine anni ottanta s’ipotizzò di trasferirla altrove – anche il piccolo abitacolo protetto dell’auto funge in qualche modo da luogo d’incontro, perché i memorabili ingorghi di Teheran in qualche modo favoriscono forme di socialità, si fa amicizia con il tassista, si sbircia attraverso il finestrino, si lanciano occhiate a chi è seduto nella vettura accanto, ci si scambia il numero di telefono e in alcune strade si va appositamente per rimorchiare. Forme di car flirting ai tempi della Repubblica Islamica dell’Iran.
Immagine di copertina: Chitgar, nuova espansione urbana per la classe media
“Iran, prima e dopo la rivoluzione”, mostra a Milano fino al 30 aprile
di Alessandro Colombo
Composti, quasi fermo immagine di un lungometraggio girato in un’epoca definita ma imprecisata della storia recente dell’Iran, i fotogrammi di Niedermayr impongono il silenzio e il raccoglimento di fronte ai temi più delicati che interessano lo spazio antropizzato di una cultura millenaria che, attraverso rivoluzioni, dittature, vicende storiche, si incontra e scontra con il mondo occidentale, o meglio con la sua forma edilizia, in un confronto che non sembra sanabile se non nella contrapposizione. Ma l’architettura sembra superare tutto questo e impone le sue masse in questi paesaggi assenti nei quali l’uomo, ma soprattutto la donna, è una comparsa fa i reperti isolati della tradizione – bellissimi i colombai e le torri del vento – che sembrano destinati a dover scomparire.
Grazie al benvenuto mecenatismo di antico tratto di Ersel, gestore di patrimoni italiano con una tradizione nel campo della comunicazione tramite l’arte, dal 30 marzo al 30 aprile 2023 è possibile ammirare a Milano le opere che Walter Niedermayr dedica a ”Iran, prima e dopo la rivoluzione”.
15 opere complesse, scelte con la curatela di Chiara Massimello, che documentano un’architettura “che invade senza chiedere il permesso (e) ci obbliga a riflettere sul difficile presente”. Un arduo equilibrio fra passato e contemporaneità, architettura e paesaggio che permette a Walter Niedermayr di dispiegare la rarefatta eleganza della sua poetica, lui artista che dipinge con la luce la realtà storica ritratta nell’opera fotografica.
“Iran. Prima e dopo la rivoluzione”, foto di Walter Niedermayr
A cura di Chiara Massimello
Spazio espositivo Ersel, Milano
Dal 30 marzo al 30 aprile 2023
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architettura e politica , Medio Oriente , spazio pubblico
Last modified: 26 Aprile 2023