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Michele RodaWritten by: Interviste

Lesley Lokko: sul futuro cambiamo il punto di vista

Lesley Lokko: sul futuro cambiamo il punto di vista

La Biennale della curatrice ghanese porterà pochi nomi noti e grandi studi: spazio a donne, giovani e collettivi interdisciplinari

 

VENEZIA. “Futuro, cambiamento, nuove narrazioni”. Il mondo di Lesley Lokko, architetta-scrittrice (o scrittrice-architetta), sbarca in Laguna con modi gentili ma approcci decisi. Fuori da Ca’ Giustinian si festeggia il Martedì grasso, lei illustra con precisione la sua Biennale di Architettura: il titolo (“The Laboratory of the future”, appunto), le 6 sezioni, il programma di eventi collaterali, la grafica. La conferenza stampa è un inno di ordine e rigore: discorso letto, tempi rispettati, slides proiettate, elenchi di nomi. L’intervista che ci concede a margine è invece un intenso racconto personale, delle certezze così come dei dubbi.

 

La Biennale di Architettura arriva alla maggiore età, è la 18° edizione. Viene celebrata con la terza curatela femminile, la prima in assoluto africana. Quasi scontato parlare di momento rivoluzionario.

Diciamo che è una combinazione di fatti. Gli ultimi anni hanno messo in primo piano questioni che erano marginali: oggi identità, giustizia, equità sono al centro dell’immaginario. La scelta di affidarmi la Biennale è figlia di questi tempi. Credo sia stata coraggiosa: non ho grandi strutture o istituzioni alle spalle. E nemmeno uno studio professionale di rilievo. Mi piace pensare sia una scelta sperimentale.

 

Rivoluzionaria, a suo modo. Non piace questo aggettivo?

Non che non mi piaccia, faccio però fatica ad aggettivare in questo modo l’architettura. Che è una disciplina che ha tempi lunghi, che non può risolvere all’istante le aspettative che le persone le affidano.

 

Poche archistar e nomi noti, ancora meno grandi studi. Molti giovani e collettivi interdisciplinari, tante donne. Cambia radicalmente lo scenario che i visitatori troveranno ai Giardini e all’Arsenale.

Decisamente. Ma non c’è l’intenzione di fare necessariamente qualcosa di diverso. La selezione che presentiamo nasce dalla volontà di costruire un modo alternativo di raccontare l’architettura.

 

Ovvero?

Presento una visione che credo sia una fortissima metafora dell’identità dell’architettura del futuro. La diaspora africana nel mondo è legata dalla storia ma non ha un luogo specifico, è fluida e intrecciata e abbraccia il mondo. Una cultura che troviamo dispersa in tante nazioni: permea lingue, identità ed eredità. Va oltre i passaporti e i confini. Mi sembra interessante osservarla, nel percorso d’ibridazione che coinvolge tutte le società.

 

Parlare oggi di Africa significa quindi parlare del mondo?

Certamente sì. Tanti architetti africani, i più noti e i meno noti, sono capaci di produrre progetti e idee straordinarie, anche a partire dai materiali unici che hanno a disposizione e dalla capacità d’integrarsi nella natura. Fanno cose diverse dai loro colleghi occidentali o del Medio Oriente. Con il nostro programma diamo spazio al loro ruolo di agenti del cambiamento.

 

Per raccontare questa nuova storia serve un’architetta che è anche scrittrice?

Forse sì. Per me architettura e scrittura sono la stessa cosa. Certo, gli strumenti sono diversi. E anche i metodi: scrivere è un’azione solitaria, progettare invece nasce dalla collaborazione tra tanti. Ma gli impatti che producono sono identici.

 

Abbiamo parlato di architetti, ma in realtà la Biennale targata Lokko sceglie un termine diverso, praticamente senza traduzione italiana: practicioners. Copre un campo più ampio della disciplina tradizionale del progetto edilizio. Vuol dire che tutto è architettura o forse che l’architettura è ovunque?

Entrambe le cose. Abbiamo scelto quel termine perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione più ampia del termine architetto. Practicioners deriva dalla parola praxis. L’ho sentita usare da una persona quando avevo circa 20 anni, riferendosi alle sue molteplici attività legate all’architettura: insegnare, scrivere, costruire, progettare installazioni. Condivido questa idea: ci sono molti modi alternativi per innovare il mondo, ovvero quello che dovrebbe fare l’architettura. Costruire occasioni di conoscenza è tanto importante quanto costruire edifici. Ero convinta d’imparare tutto dell’architettura quando ho intrapreso gli studi. Alla fine, invece, mi sono accorta di sapere meno di quando avevo iniziato. E credo sia una buona cosa.

 

In questi eventi c’è sempre un filo che collega e separa architettura e arte. A maggior ragione alla Biennale, dove l’Architettura è la sorella piccola di una manifestazione più grande come la Biennale Arte.

L’architettura (insieme ad altre discipline come l’ingegneria, la medicina, il diritto) è considerata una professione forte perché conferisce un titolo. Invece l’arte è tradizionalmente ritenuta meno prestigiosa. Anche io avevo questa idea, ora l’ho radicalmente cambiata. Gli architetti sono spesso più interessati a difendere i propri territori che non ad aprirsi alle possibili influenze. Nell’arte, nella musica, nella letteratura ci sono confini molto più porosi. E questo permette di assorbire stimoli e suggestioni. Non mi piace un’architettura preoccupata di autodefinirsi, che si concentra sui propri perimetri. Credo che debba imparare dall’arte la propensione a contaminarsi.

 

Possiamo anticipare già adesso il tenore delle critiche, una volta che la Biennale sarà aperta: non c’è l’architettura.

Me le aspetto, sono 30 anni che le sento. Sinceramente non mi interessano molto, non ho l’energia di difendere la mia posizione convincendo gli altri. Ho questa idea forte, la condivido con tanti dei miei studenti. Mi basta.

 

Questione anche generazionale?

Penso di sì. Una delle cose che più apprezzo del fatto di essere docente è il contatto costante con ragazze e ragazzi più giovani. Significa essere coinvolti in una visione del mondo che è fonte di continua ispirazione.

 

Sono stati d’ispirazione anche questi mesi di preparazione della Biennale?

Sono 9 mesi che lavoriamo intensamente, una vera gestazione. Ho trovato straordinario il poter essere in contatto ogni giorno con persone che hanno la capacità di farti ragionare, e qualche volta di farti cambiare idea. Bisogna essere bravi a restare focalizzati sull’obiettivo ma allo stesso tempo disponibili a rivedere certe posizioni. Penso che una mostra sia allo stesso tempo un momento e un processo.

 

Quindi, mi pare di capire, non dobbiamo aspettarci risposte definitive da questo Laboratorio?

Nessuno sa come sarà, il futuro è incerto per definizione. Ma possiamo sperimentarlo. Ecco, la Biennale vuole essere un Laboratorio di soluzioni possibili: uno spazio protetto ma al tempo stesso ibrido e dinamico. Capace di essere creativo prendendosi anche dei rischi.

 

Non è scontato affrontare il futuro, a Venezia. Molto spesso si è parlato di passato. Come nella prima edizione, quella del 1980, curata da Paolo Portoghesi: La presenza del passato.

Venezia e Accra, la mia città, sono due mondi diversissimi, opposti. In Italia sento l’idea della permanenza, che apprezzo, ma la mia è una cultura differente. C’è il senso della storia: tuttavia, tendiamo a ritrovarlo non nelle pietre ma nelle pratiche sociali. Dare dei giudizi su cosa sia più corretto è impossibile, persino fare dei confronti è assurdo. Ci sono tanti modi diversi di essere nel mondo.

 

In un quadro dinamico e mutevole, ci sono due parole che, condividendo il prefisso, sembrano prefigurarlo questo futuro e che avete scelto come slogan della Biennale: de-colonizzazione e de-carbonizzazione.

Sono la stessa cosa: giustizia sociale e giustizia climatica sono le due questioni del momento. Per raccontare dobbiamo necessariamente partire da qua.

 

Chiudiamo con il Carnevale che si festeggia nelle strade di Venezia proprio nel giorno della presentazione della Biennale. Una delle sezioni si chiamerà proprio così.

Metterà insieme musica, poesia, cinema. Ci saranno politici, policymakers, poeti, registi, scrittori, attivisti. Si confronteranno tanti modi diversi di comunicare e di tradurre l’architettura. Credo che presentare il nostro programma proprio in una giornata così speciale sia una fortunata coincidenza. Il Carnevale mi ha sempre affascinato. Non tanto e non solo come intrattenimento e divertimento, ma come una sorta di spazio filosofico di liberazione, in cui è possibile costruire immagini e visioni alternative. Cambiare il punto di vista è proprio la sfida più importante della mia Biennale.

 

Immagine di copertina: Lesley Lokko (foto Jacopo Salvi_Courtesy of La Biennale di Venezia)

 

 

Chi è la curatrice della 18. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia

Lesley Lokko (Ghana/Scozia) è architetta, docente di architettura e scrittrice. Nel 2020 fonda ad Accra l’African Futures Institute, scuola di specializzazione in architettura e piattaforma di eventi pubblici che tuttora dirige. Nel 2015 aveva fondato la Graduate School of Architecture presso l’Università di Johannesburg. Ha insegnato nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Europa, in Australia e in Africa (Bartlett School of Architecture; Kingston University e London Metropolitan University a Londra; Iowa State University, University of Illinois a Chicago negli Stati Uniti; University of Johannesburg e University of Cape Town, in Sudafrica; UTS a Sydney, Australia). Ha ricevuto numerosi premi per il suo contributo all’insegnamento dell’architettura, tra cui si ricordano: RIBA Annie Spink Award for Excellence in Education 2020; AR Ada Louise Huxtable Prize for Contributions to Architecture 2021. Nel 2019 è stata nominata preside della Bernard and Anne Spitzer School of Architecture di New York, da cui si è dimessa nel 2020 per dedicarsi all’African Futures Institute nel suo paese, il Ghana. Il suo lavoro trentennale nel campo dell’architettura e della letteratura si focalizza sulla relazione tra “razza”, cultura e spazio. Nel 2004 pubblica il suo primo romanzo, Sundowners (Orion) (Il mondo ai miei piedi, Mondadori 2004), cui seguono altri 11 titoli. Il suo ultimo romanzo, The Lonely Hour, uscirà nel 2023 con Pan Macmillan editore. Ha fondato e dirige «FOLIO: Journal of Contemporary African Architecture». È autrice di White Papers, Black Marks: Race, Space and Architecture (Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000). Ha un PhD in Architettura alla University of London e un BSc (Arch) and MArch alla Bartlett School of Architecture, UCL (University College London). È attualmente membro fondatore del Council on Urban Initiatives, insieme a LSE Cities, UN Habitat e UCL Institut for Innovation and Public Purpose. È Guest Editor della serie UCL Press e Visiting Professor alla Bartlett School of Architecture, UCL.

 

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 23 Marzo 2023