La capitale dell’Azerbaigian verso il futuro, al traino di grandi eventi globali
Arriviamo in orario notturno all’aeroporto Heydar Aliyev di Baku. Ci accoglie la sinuosa sagoma vetrata concepita dallo studio turco Autoban (2014), illuminata a giorno. L’impatto con le temperature locali è immediato, grava lo zaino sulle spalle del viaggiatore low budget. Ci attardiamo nello spazio avvolgente a tutt’altezza dell’atrio (narrativo, esperienziale, anti-asettico, lo descrivono le riviste d’architettura), tra pilastri ad albero e bizzarri “bozzoloni” a scandole quadrangolari: negozietti, chioschi, caffè, ormai ben oltre l’orario di chiusura. Ci ha trattenuti una simpatica contrattazione in esperanto con l’addetta ai controlli doganali (agosto 2022: green pass? E chi se lo ricorda più). Nell’attesa di un taxi ci stravacchiamo sui divanetti di un caffè che espone dolcetti tirolesi. Lo strudel non è neanche male. Rovistando pigramente tra le pieghe di internet risulta che il motivo prospettico del pavimento del terminal è in multi-minerale sinterizzato, fornito dalla Cosentino di Cazzago di Pianiga (VE): coincidenze della globalizzazione.
Già all’alba la capitale sul Caspio da due milioni e rotti di abitanti, un quarto della popolazione del paese, è in piena attività. Una rutilante rassegna architettonica si offre alla vista durante la corsa verso l’ostello, lungo l’Heydar Aliyev Prospekti. Qui, scopriremo, tutto è intitolato al dittatore: ex funzionario PCUS e KGB, ha retto fino al 2003 la Repubblica indipendente post-sovietica; per poi designare alla successione il figlio İlham Aliyev, 61 anni, tuttora ai vertici. Avanziamo verso il centro lambendo l’hypermarket Bravo, giocattolone vintage stile Learning from Las Vegas, disegnato dagli olandesi JDV. Sull’altro fronte, oltre le nove corsie di scorrimento, campeggiano i bianchi anelli svolazzanti della National Gymnastic Arena. “Esiste dal 2014, ospita fino a 9.000 spettatori”, c’informa orgogliosamente il tassista.
Dubai docet
Dal boom di metà anni novanta, connesso alla costruzione della South Caucasus Pipeline, l’élite petrolifera foraggiata dallo Stato ha scelto d’investire i vertiginosi extra-profitti dirottandoli su immobiliare e turismo. Al motto di “se Dubai ce l’ha fatta anche Baku può”, come ha scritto ironicamente Farid Guliyev (“Urban Planning in Baku: Who is Involved and How It Works”, in Caucasus Analytical Digest 101, 2018).
Al processo di rigenerazione urbana hanno fatto da volano, come da copione, i grandi eventi dell’intrattenimento mondiale. Dall’Eurovision Song Contest del 2012, alle gare di Formula 1, alle partite della Champions League. Da cui la sfilza di megastrutture, comprese quelle in cui c’imbatteremo fortuitamente nei giorni a venire, sfidando la torrida estate azera con vari mezzi di locomozione, piedi compresi: l’origami metallico della Crystal Hall di GMP (Volkwin Marg e Hubert Nienhoff, 2011) e il cilindrone dello stadio olimpico, a firma dei coreani Heerim, 2015 (autori, questi ultimi, anche dell’inconfondibile mezzaluna di 33 piani che domina lo skyline della baia, il Kempinski Hotel Crescent).
Costruzioni scintillanti, elefantiache, dalla manutenzione iper-costosa, tutte (salvo sporadicamente) dormienti. Realizzate, come è ovvio, a spese di preesistenti quartieri popolari (50.000 persone scacciate dalle demolizioni, solo nel 2016). E naturalmente basate sul ricorso a manodopera internazionale illegale, adeguatamente sfruttata.
Un’icona vuota
Ignari del lavoro in nero che gli sta dietro, nella stessa corsa in taxi osserviamo dal finestrino la candida mole del celebrato Heydar Aliyev Center, plasmato da Zaha Hadid Architects nel cemento e poliestere misti a fibra di vetro. La visita al museo, l’indomani, ci lascia un po’ delusi. Non tanto per il paesaggio immacolato, tutto seni e flessi, che digrada in una serie di rampe, terrazze, specchi d’acqua tutto sommato piacevoli. E non solo perché la scultura cava dell’auditorium in legno, meta della coppia di architetti che con noi ne chiede notizia al desk è, al momento, preclusa ai turisti. Quanto, piuttosto, per lo scarno programma d’uso degli interni che comprende, nell’ordine: una mostra di tappeti artistici contemporanei, una collezione di bambole in abiti regionali e, soprattutto, la rappresentazione agiografica con mezzi multimediali delle gesta del defunto Padre della patria, già più volte citato (un intero piano museale). L’edificio di Hadid, se ne evince, è puro landmark: oggetto tra gli oggetti, in un paesaggio urbano cresciuto tumultuosamente senza piano, a valle del crollo dell’URSS. L’effetto complessivo è un assortimento di episodi magniloquenti, senza costruzione di un qualche tessuto.
La città della crescita regolata
Il connettivo non manca, ovviamente, all’espansione ottocentesca, dove alloggiamo per prossimità agli altri must-see locali: la città vecchia fortificata, giustamente suggellata dal marchio UNESCO nel 2000 e, naturalmente, le Flame Towers (degli americani HOK Group, Hellmuth Obata Kassabaum, 2013), divenute simbolo stesso della rinascita della capitale. Gli isolati intorno all’ostello sono quelli del piano russo del 1864, all’epoca dell’insediamento della famiglia Nobel (sì, quelli dell’omonimo Premio e dell’applicazione su vasta scala della dinamite), artefice del primo boom petrolifero dell’Azerbaigian, ci spiega il loquace gestore.
La Lonely Planet conferma: è alla loro presenza che si deve la fisionomia europea della piccola Parigi sul Mar Caspio. La villa padronale (Petrolea, nomen omen), costituiva il perno di un sistema di campi di estrazione, quartieri operai, servizi civili che configuravano la cosiddetta black city, l’allora periferia urbana – peraltro attentamente pianificata, come in ogni company town degna di tal nome. La crescita regolata, almeno fino al piano del 1987, sarà poi travolta dallo scomposto esercizio edificatorio recente, connesso al ricordato secondo boom petrolifero.
Rifarsi una verginità
Ma perché tanto bianco – ci siamo chiesti, lasciando il Paese – nel volto attuale della metropoli azera? Al di là dell’ovvio riferimento alla tradizione del Moderno, è evidente la volontà di rifarsi una verginità obliterando la monocultura del petrolio.
Leggiamo della realizzazione in corso di “Baku white city”, il vasto masterplan di rigenerazione urbana (1.650 ettari) siglato da Atkins, con Foster and Partners e F+A Architects. Volto a cancellare l’immagine industriale del settore centrale della baia, attraverso la costruzione di dieci quartieri residenziali immersi nel verde. Comprensivi d’isolati alla Haussmann, con tanto di tetti mansardati, abbaini, torrette d’angolo. Fanno da pendant alla piramide di vetro all’ingresso della stazione centrale della metropolitana, introdotta dal restyling del 2007.
Lasciandoci le perplessità alle nostre spalle, riprendiamo il viaggio con l’intenzione di raggiungere il Mar Nero.
Immagine di copertina: l’Heydar Aliyev Center (foto Unsplash)
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architettura e politica , Foster + Partners , L'archiviaggio , Medio Oriente , zaha hadid
Last modified: 4 Gennaio 2023