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Laura Villa BaroncelliWritten by: Città e Territorio

Everybody’s gone surfin’: New York 10 anni dopo l’uragano Sandy

Everybody’s gone surfin’: New York 10 anni dopo l’uragano Sandy

Tra resilienza e status quo, tutti i progetti (e le molte criticità) della Grande Mela per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici

 

NEW YORK. Quando nel marzo 1963 usciva Surfin’ USA dei Beach Boys, l’idea, secondo le parole del co-fondatore della band Brian Wilson, era quella di “citare tutti i luoghi del surf” da Waimea Bay in Hawaii a Narrabeen in Australia, e la Manhattan del ritornello era, senza grandi sorprese, Manhattan Beach in California. Eppure sono in tanti a fare surf a New York, e se non proprio a Manhattan, certamente a Rockaway Beach nel Queens.

Con il suo iconico skyline verticale, è facile dimenticare che New York City, uno dei più densi e potenti agglomerati urbani del mondo, è anche un arcipelago, un’appendice del Nord America che si trascina nell’Atlantico e che con i suoi fiumi stretti, estuari e isole, è estremamente vulnerabile alle inondazioni. Altre megalopoli costiere, da Rotterdam a Shanghai, Tokyo o Londra, hanno da tempo installato dighe e barriere per tenere l’acqua fuori dalle strade, ma New York no.

Ma da quando la sera del 29 ottobre 2012 l’uragano Sandy ha devastato l’intera regione, inondando il 17% della città, paralizzato infrastrutture pubbliche e private e causando danni per 19 miliardi di dollari, l’atteggiamento sembra cambiato. Da allora, quasi 18 miliardi di dollari in fondi federali sono stati investiti nella resilienza urbana. A dieci anni di distanza, “Sandy +10”, una serie di eventi in collaborazione con il Center for Resilient Cities and Landscapes della Columbia University, invita il pubblico a esplorare come questi fondi siano stati investiti, quali strategie innovative di progettazione, pianificazione e politica siano a oggi state implementate, e quali futuri investimenti siano ancora necessari. È New York City un modello a cui guardare?

 

Ostriche e cemento

Le aree degli Stati Uniti a più alto rischio inondazione sembrano valutare tutte la stessa possibilità: costruire un muro. A Miami è stata proposta una diga alta 6 metri. A Charleston, nella Carolina del Sud, i lavori per costruire una diga intorno al centro della città sono già in corso.

A New York la città ha anticipato 900 milioni di dollari per 5 progetti volti a rafforzare le aree costiere della Lower Manhattan. Uno di questi è una diga di 4 km che dovrebbe essere completata entro il 2026. Il progetto, The big U, dal nome del principale studio coinvolto, Bjarke Ingels Group (BIG), e dalla forma ad U della costa del Lower Manhattan, era stato uno dei vincitori di Rebuild by Design, il concorso bandito dall’allora presidente Barack Obama con lo scopo di sviluppare soluzioni progettuali innovative per le regioni devastate dall’uragano. Fondamentalmente The big U non è che un sistema di difesa passivo integrato dall’uso di alcune paratoie che, insieme all’innalzamento permanente della costa, verrà a creare una linea di protezione continua da The Battery a Brooklyn Bridge. “E se la prossima onda fosse più alta del muro?”, chiede provocatoriamente Judy Rodin, ex presidente della Fondazione Rockfeller e autrice del libro The Resilience Dividend, durante la conferenza “Resilience, Equity, Climate Justice” organizzata dalla Columbia University in occasione dei dieci anni dall’uragano Sandy? Anche secondo Kate Orff, fondatrice dello studio SCAPE, la soluzione non è mettere un muro intorno a New York City.

La città ha oltre 500 miglia di costa che un tempo erano paludi, mentre oggi la stragrande maggioranza sono cemento, acciaio e pietra. Le dighe sono state a lungo utilizzate per proteggere persone e proprietà dalle inondazioni costiere, ma risolvendo un problema in un punto possono causare una miriade di problemi altrove, come intensificare le mareggiate e distruggere interi ecosistemi. Di conseguenza, anziché rappresentare un modo infallibile per rispondere in maniera resiliente al pericolo inondazioni, tali infrastrutture potrebbero aprire la porta a una maggiore vulnerabilità climatica.

Quali alternative ci sono? Parecchie, e New York sembra disposta ad esplorarne diverse. Attualmente al West Pond Living Shoreline di Jamaica Bay, dove l’uragano non aveva che accelerato la distruzione di un’infrastruttura già deteriorata, si sperimentano tecniche per ricreare zone paludose che dovrebbero servire da protezione. In direzioni simili si sviluppano progetti come Blueblocks, i giardini galleggianti nati dalla collaborazione tra il collettivo Thread e il RETI Center, un sistema modulare ispirato alle ninfee, costruito interamente con materiali di recupero, una sorta di prototipo vivente che esplora come piante e strutture biofile possano purificare i corsi d’acqua e costruire una protezione contro eventi climatici avversi. O, ancora, il Billion Oyster Project a Governors Island, in cui si sta cercando di riportare le ostriche nelle acque intorno all’isola e al porto di New York. Le loro barriere non solo fornirebbero l’habitat a molte specie marine e avrebbero la capacità di filtrare l’acqua, ma attenuando la violenza di grandi onde, aiuterebbero a proteggere le coste riducendone l’erosione e contenendo le inondazioni.

 

A resilient recovery?

Nel 2013, l’ufficio dell’Housing Recovery Operations (HRO), finanziato dai fondi per il ripristino di emergenza (CDBG-DR) del Dipartimento per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano (HUD) degli Stati Uniti, aveva lanciato Build It Back, un programma da circa 2,2 miliardi di dollari per aiutare a riparare, ricostruire e innalzare proprietà private danneggiate dall’uragano Sandy. Ed è effettivamente avvenuto per migliaia di case tra Staten Island, Brooklyn e Queens.

Tuttavia, oltre ad essere stato particolarmente lento, il programma si è limitato a ricostruire le strutture abitative con costi che a volte hanno superato i valori pre-tempesta delle case e senza investire nel miglioramento delle infrastrutture, come il drenaggio e l’accessibilità. Non solo. New York è una città con oltre il 60% di affittuari e solo un quarto dei suoi 3,6 milioni di case si trova in edifici indipendenti o di due unità. Concentrarsi sui proprietari di case unifamiliari, che in genere hanno ancore di salvezza come risparmi e assicurazioni, è il miglior uso delle scarse risorse pubbliche?

Che cos’è la resilienza? Si dice che una ripresa “resiliente” dia la priorità nell’affrontare le cause profonde del pericolo e della vulnerabilità, come disabilitare i fattori sociali ed economici che hanno destinato alloggi, principalmente per i poveri, in zone sempre più esposte al rischio inondazioni. Il Center for Resilient Cities and Landscapes della Columbia University si chiede se, come “professionisti della resilienza”, non rimaniamo troppo legati allo status quo: “Possiamo riformulare la ricerca come strumento di responsabilizzazione? Ad esempio, possiamo sviluppare metodi di analisi geospaziale che valutino l’esperienza vissuta alla pari con l’osservazione oggettiva? Come affrontiamo lo squilibrio di potere nei gruppi di stakeholder?

 

Priorità o opportunità

In un certo senso Sandy è stata un disastro ma anche un’opportunità”, ci dice Karen Blondel, attivista e leader del gruppo Gowanus Neighborhood Coalition for Justice, “perché ha galvanizzato la comunità che ha trovato l’energia di unirsi a denunciare le disparità di cui ancora oggi soffriamo sia per rapporto al clima ma anche, e forse soprattutto, riguardo all’abitare”. Siamo nelle case popolari di Gowanus, in un’ex zona industriale, oggi paradossalmente largamente gentrificata nonostante sorga intorno ad uno dei canali più inquinati della città. Quando l’uragano ha colpito, non è solo il canale che ha esondato, ma anche le fognature delle case popolari.

Secondo il DEP, il dipartimento per la protezione ambientale di New York, l’effetto serra sta cambiando il clima più velocemente di quanto la città sia in grado di cambiare le infrastrutture, e i newyorchesi devono essere pronti al fatto che il volume e l’intensità delle piogge aumenterà al punto che le infrastrutture urbane non saranno in grado di gestirle. Per questo motivo dopo l’uragano il DEP ha stanziato 2,5 miliardi di dollari per la ricostruzione delle fognature e per dare il via a progetti pilota per la gestione delle acque piovane, come i sistemi di bioritenzione installati al Roy Wilkins Park Jamaica. Complessivamente la città ha destinato 1,6 miliardi di dollari per infrastrutture verdi e sono già stati costruiti più di 11.000 giardini pluviali per raccogliere e assorbire l’acqua piovana prima che entri, intasandolo, nel sistema fognario.

Ma se anche legata all’effetto serra, la distribuzione spaziale delle strutture che maggiormente soffrono dei danni legati a infrastrutture obsolete non è casuale. Con decenni di disinvestimenti nell’edilizia popolare non sorprende che alcuni abbiano visto l’uragano come un’opportunità. Il programma di recupero Sandy da 3,2 miliardi di dollari della New York City Home Autority (NYCHA), è la più grande infusione di fondi nell’edilizia residenziale pubblica mai avuta. Sfortunatamente, le regole di finanziamento di emergenza, dovendo per legge concentrarsi sulle riparazioni associate all’emergenza specifica, hanno precluso molti dei suggerimenti più ambiziosi come il rivestimento degli edifici, l’installazione d’impianti di cogenerazione o di microreti di quartiere. Inoltre, infrastrutture che erano in cattive condizioni e la cui sostituzione avrebbe contribuito alla resilienza generale del sito, come le tubature delle acque piovane, non potevano rientrare nei finanziamenti se non poteva essere dimostrato che il danno era conseguenza diretta della tempesta.

Per alcuni tutte queste regole sono state fonte di grandi frustrazioni e causa di risultati mediocri, molto più che per via dei fondi insufficienti. Uno dei problemi secondo Henk Ovink, direttore di Rebuild by Design e Senior Advisor per l’ex Presidential Hurricane Sandy Rebuilding Task degli Stati Uniti, è che questi progetti sono istituzionalizzati e le istituzioni hanno difficoltà con le innovazioni. Nel frattempo, nota Blondel, tra burocrazia e pregiudizi, il 34% dei residenti di Gowanus Houses ha ancora muffa nelle case dieci anni dopo Sandy e il 63% non ha ricevuto nessuno degli aiuti per cui hanno fatto richiesta. Cosa si può fare per migliorare le cose? “Let’s hack the system”, dice con provocazione Ovink, “Let’s hack the policy to make the good things happen!”.

 

Red Hook, New York Next Big Thing?

Dopo Sandy, i residenti del quartiere di Red Hook, una delle zone più colpite dall’uragano, erano convinti che le loro proprietà avrebbero perso completamente di valore. Invece, negli anni successivi i prezzi sono aumentati vertiginosamente. Se tra condomini da milioni di dollari e gallerie d’arte, la trasformazione di Red Hook oggi è tangibile, nel 2016 Tesla vi aveva già aperto uno showroom e nel 2018 lo stesso governatore di New York, Andrew Cuomo, aveva inserito la rivitalizzazione del quartiere nella sua agenda. Per le società vi che avevano messo gli occhi, Red Hook era New York Next Big Thing.

Secondo il “New York Times”, dopo miliardi di dollari spesi per un processo di ripresa che ufficialmente sembra considerato completo, la città potrebbe non essere meglio preparata rispetto a dieci anni fa.

Durante il simposio alla Columbia, Judy Rodin ha chiaramente affermato che “Gli ultimi anni sono stati una perdita di tempo per New York City. Tutti quei progetti di cui si è discusso tanto e poi non si è fatto niente perché bisognava limitarsi a rimettere a posto le cose com’erano prima“. Eppure Sandy avrebbe dovuto essere una cartina al tornasole.

A New York oggi muoiono in media 145 persone al giorno tra povertà, droga, incidenti. 44 persone sono morte la notte del 29 ottobre 2012 a causa dell’uragano Sandy. Tante di quelle morti erano legate a condizioni abitative illegali nei piani terra o seminterrati. Diane Davis, docente ad Harvard, qualche giorno fa durante una conferenza alla Columbia, “At the Water’s Edge: Transformative Local Action for Flood Response and Climate Adaptation”, si chiedeva se non fossero le nostre istituzioni a necessitare di un ripensamento; anche, e forse soprattutto, quelle finanziarie. In effetti ripensare le istituzioni vuol dire ripensare i perché, ripensare non solo il loro funzionamento ma, forse principalmente, i loro obiettivi. Per poterlo fare dobbiamo iniziare non solo a ripensare ciò che conta ma anche, come aveva sottolineato anni fa il comitato scientifico condotto da Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand, per la ridefinizione degli strumenti di misurazione delle performance dell’economia e del progresso sociale, con il misurare ciò che conta. E se fosse questa Next Big Thing?

 

Immagine di copertina: Manhattan vista da Jamaica Bay, Queens. I ghiacciai, ritirandosi, si erano lasciati dietro acri di zone umide, laghi e stagni e centinaia di miglia di ruscelli. Ma con l’arrivo degli europei, New York ha perso l’85% della sua area di palude salata e miglia di torrenti nonché il 99% del suo habitat di zone umide d’acqua dolce. Secondo il New York City Department of Parks & Recreation, i 5.650 acri di zone umide che ancora rimangono sono costantemente minacciati dall’innalzamento del livello del mare, dall’inquinamento, dalle specie invasive e altro ancora

 

Autore

  • Laura Villa Baroncelli

    Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Torino si trasferisce a Parigi dove si laurea in Sociologia e inizia la sua carriera come fotografo. Nel 2015 intervista Yona Friedman e inizia ad appassionarsi di studi urbani. Lo stesso anno si trasferisce ad Arcosanti dove collabora con gli archivi Soleri e la Fondazione Cosanti fino al 2019. Il suo lavoro appare in numerose riviste tra cui il T del New York Times Magazine, M di Le Monde, D di Repubblica, IL Sole 24 ore, AD Italia, Forbes, Vogue. Attualmente vive e lavora a New York City.

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Last modified: 8 Novembre 2022