Una testimonianza diretta dell’architetto belga recentemente scomparso, introdotta da un ricordo di Wittfrida Mitterer
Nato a Bruxelles il 13 marzo 1927, e ivi scomparso l’1 agosto 2022, libero professionista dal 1953, come architetto e urbanista Lucien Kroll costituisce riferimento nel mondo per la sua proposta partecipativa che riconosce come valore le ragioni dell’abitante. Grazie a Kroll, oggi tutti i progettisti del mondo sanno che, per riportare il proprio lavoro alle naturali finalità del costruire è necessario che uomini, donne, bambini ed anziani, cioè gli abitanti, tornino ad essere nelle intenzioni e nelle scelte, i protagonisti dell’abitare. Con il suo operare ha dimostrato che è possibile tentare una nuova alleanza tra la società e lo spazio che essa costruisce intorno a sé, con esperienze che vanno dalla residenza sociale agli spazi pubblici.
Citato sulle più importanti enciclopedie di architettura, Kroll era membro d’importanti organizzazioni tra cui l’Accademia francese di architettura, il BDA e il Commandeur des Arts et Lettres, nonché autore di numerosi saggi e articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste internazionali. Tra i volumi pubblicati: Composants (1984), The Architecture of Complexity (1986), Buildings and Projects (1987), Enfin chez soi. Réhabilitation des préfabriqués (1996). Tra le opere principali: la Casa dello studente della Facoltà di medicina a Bruxelles, il quartiere residenziale a Cergy-Pontoise, il Liceo Michelet a Parigi, l’Accademia di Utrecht, la Casa dell’ambiente a Belfort, il complesso scolastico di Caudry, il masterplan di Ecolonia (Olanda), la scuola Don Milani a Faenza (Ravenna, con Ugo Sasso).
Di lui conserveremo gli scritti, i progetti e la forza utopistica delle sue idee, con la promessa di continuare a difenderle e divulgarle come e più di sempre. Un’eredità che emerge anche dal discorso tenuto da Kroll il 28 febbraio 2018 presso la Casa dell’Architettura di Roma, in occasione dell’inaugurazione della mostra internazionale dedicata alle sue opere dal titolo “Tutto è paesaggio, una architettura abitata. La periferia, luogo di incontro e partecipazione”.
Wittfrida Mitterer
Presidente Fondazione Italiana di Bioarchitettura
Dopo i miei studi presso l’École nationale supérieure des arts visuels de La Cambre a Bruxelles, la scuola fondata da Henry van de Velde e basata sul “dovere di offrire bellezza al committente”, avevo realizzato numerosi lavori a diversa scala. Abitazioni, interventi urbani e poi, quasi per caso, anche strutture religiose quali cappelle, chiese, abbazie e un insieme di strutture per la collettività. Ogni abitazione era differente e in sede di progettazione il lavoro veniva discusso con il futuro abitante. Anche una chiesa costituiva un incarico affrontato allo stesso modo, ovvero fondato sul confronto e sulla partecipazione degli abitanti di una cittadina, e così via per ogni progetto. In questo modo appresi un mestiere basato sulla progettazione partecipata.
Quando Kayibanda Grégoire, primo presidente del Ruanda indipendente eletto nel 1962, aveva ottenuto i fondi per la realizzazione della sede presidenziale, ho ricevuto il compito di progettarla. Volevo che fosse un’opera bantoue, ovvero appartenente alla tradizione di quella cultura che risiede nelle regioni centrali, orientali e meridionali dell’Africa. L’intero aspetto urbano doveva essere bantoue. Questo costituiva una novità e Frantz Fanon (medico e psichiatra originario dell’isola della Martinica, nonché attivista, rivoluzionario e sostenitore dei movimenti di partecipazione democratica), ne sarebbe stato felice. I sette piani dell’edificio si restringevano verso l’alto e terminavano con una copertura in lamiera ondulata in omaggio a tutte le costruzioni indigene dei dintorni. Come matrice dell’impianto urbano avevo fatto tracciare un solco con l’utilizzo di un bulldozer cingolato e un cavo di 150 metri attaccato a un palo. Purtroppo non ebbi la possibilità di seguire questo lavoro fino alla fine poiché il presidente venne assassinato insieme a tutta la sua équipe. Questo lavoro, non terminato, divenne “eterno e silenzioso”. Attualmente tutto ha un aspetto desolato. L’Office des Cités Africaines fondato dagli architetti belgi sembra aver annientato tutto il resto.
In seguito, si verificò un’avventura storica inaspettata: arrivò il Sessantotto e all’Università cattolica di Lovanio gli studenti manifestavano in modo parecchio acceso. Inizialmente per un motivo un po’ folcloristico ma importante: “fiamminghi contro valloni” (comunità linguistiche abitanti rispettivamente a nord e sud del Belgio). Questo ha dato esito alla Louvain-la-Neuve, una “città-rifugio”, sede della prestigiosa università. Io passavo tutte le notti presso La Cambre ad aiutare gli studenti che manifestavano di giorno, per evitare loro di perdere un anno di studi. Naturalmente parlai con loro di progettazione partecipata. Capirono tutto e tutti riuscirono a laurearsi. Al contempo gli studenti in medicina rivendicavano una “sede silenziosa”, ossia un organo di rappresentanza presso il consiglio di amministrazione dell’università. Vennero buttati fuori dai dirigenti divenuti furiosi per le proteste. I futuri medici esigevano di poter controllare lo sviluppo urbanistico e architettonico della loro “area sociale”. Si susseguirono scioperi, varie dispute (episodi mai violenti), poi riconciliazioni. Infine, ottennero la facoltà di scegliere il loro architetto. Erano incerti su chi interpellare fino a quando non incontrarono i miei studenti della Cambre. Subito mi proposero a questa università che ancora io non conoscevo. Dunque ottennero di nominarmi architetto del loro futuro quartiere, ovvero dell’“area sociale”. Dopo aver riunito alcuni amici (insegnanti e così via…), al fine di capire meglio come organizzare il lavoro, incontrai gli studenti di medicina con l’aiuto di Michaël Balint, noto psicanalista ungherese, per ascoltare le loro necessità.
Come applicare un metodo compositivo partecipato ad un progetto reale? Costruimmo dunque nel nostro atelier un modello a grande scala del terreno su cui edificare. Ci siamo poi divisi in gruppi, secondo le necessità del programma edilizio, e ogni gruppo di studenti scelse di sviluppare una parte del progetto tra cui la MéMé (Maison Medicale), gli alloggi, l’amministrazione della sede, il ristorante, gli shop, l’area ecumenica. Inizialmente mi sono fatto carico della comunicazione tra queste funzioni disposte un po’ disordinatamente. Ogni équipe, composta da due persone, rivendicava una posizione privilegiata. In seguito, un gruppo si è occupato della comunicazione tra le parti. Successivamente abbiamo scambiato a rotazione le varie tematiche e, dopo numerose sessioni, confronti e discussioni, il disordine si è allentato ed è emerso un principio di progetto, un vero e proprio filo conduttore. Facevamo revisioni assieme agli studenti ogni volta che passavano a casa nostra: Simone, mia moglie, dibatteva con loro e li riceveva splendidamente. In seguito, realizzammo un modello estremamente significativo fatto con blocchi di plastica espansa facilmente smontabili che pian piano vennero fissati. Questo esercizio meno teorico mostrava il sistema urbano tridimensionalmente.
Non avevamo ancora avuto il coraggio di coinvolgere pienamente gli studenti in questa pre-organizzazione urbana. Quando iniziò a prendere maggiormente forma, iniziammo a invitarli a Lovanio quasi ogni settimana, prima a due a due, poi a dozzine, poi a centinaia. Per le occasioni più importanti vennero invitati anche gli architetti ed alcuni curiosi interessati. Avevo provato a tenere un giornale dei lavori, prima come bozza poi come vero e proprio documento, intitolato The Soft Zone. Ero stato invitato a Londra presso l’Architectural Association School of Architecture, che si è dimostrata molto interessata al nostro lavoro. Il mio testo fu tradotto dall’amico architetto Peter Blundell-Jones e fu pubblicato.
Il primo cantiere, obbligatoriamente, fu quello della MéMé. Tutto venne discusso: il club, la reception, la grande sala, gli uffici. Quanto deciso si richiamava al principio di flessibilità e variabilità dai noi sempre ricercato. Il piano di proprietà della MéMé veniva modificato continuamente. In maniera discreta, uno studente v’installò anche un ristorante con 36 coperti. Si aggiudicò l’appalto di questo primo edificio una buona impresa che non faceva parte di quel consorzio che pilotava i risultati delle gare, organizzando minuziosamente la concorrenza a proprio vantaggio. Il consorzio tentò di farci fuori, una procedura che venne adoperata per tutte le fasi successive. Per contro, i nostri bilanci erano però sempre perfetti. I cantieri si susseguivano e niente veniva deciso senza l’accordo sia con gli studenti sia, certamente, con la committenza. Stranamente, l’università non aveva un buon feeling con me e le relazioni stavano diventando insopportabili. Fortunatamente i rapporti con le imprese e gli operai erano abbastanza amichevoli. Ufficialmente il lavoro svolto venne ignorato e successivamente demolito dall’università. La metropolitana venne deviata per aprire la stazione Alma a favore degli studenti su un unico livello. I visitatori stranieri divennero sempre più frequenti. Tra loto numerosi architetti e responsabili erano restati affascinati dai nostri lavori. Improvvisamente si verificò una rottura insanabile con la direzione universitaria, favorita dall’Ordine degli architetti che volevano demolire tutto.
Ho tenuto più di cento conferenze nel mondo (di cui solo tre o quattro in Belgio). Ho ricevuto numerosi inviti dai Paesi Nordici e altrettanto frequentemente dall’Italia. Ho viaggiato regolarmente negli Stati Uniti, nell’America del Sud (Brasile, Argentina, Perù), in Africa e anche in Giappone. Tutto questo ha prodotto nel tempo una straordinaria cooperazione internazionale. La Francia, i Paesi Bassi e poi anche l’Italia ci hanno adottato e coinvolto in opere meravigliose e interessanti. E infine la celebrità è stata garantita dalla magnifica esposizione che Patrick Bouchain ci organizzò a Nantes, a Parigi, a Londra e… anche a Bruxelles. E che oggi giunge qui a Roma.*
* L’intervento è pubblicato sul numero doppio della rivista “Bioarchitettura/Abitare la terra” (135-136) uscito in queste settimane in occasione del trentesimo anniversario della rivista. La Fondazione Italiana di Bioarchitettura ha voluto celebrare l’anniversario con un numero doppio, interamente dedicato ai luoghi dell’apprendimento e della formazione e con un ciclo d’incontri nelle maggiori città italiane dal titolo “Bioarchitettura in Mind” (qui il calendario).
Immagine di copertina: Lucien Kroll a Roma, il 28 febbraio 2018, durante l’inaugurazione della sua mostra (© Giulio Tiberi)
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belgio , partecipazione , università
Last modified: 12 Ottobre 2022