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Laura Villa BaroncelliWritten by: Città e Territorio

Urban narcissism vs spatial justice: il capriccio di Little Island a New York

Urban narcissism vs spatial justice: il capriccio di Little Island a New York

A un anno dall’apertura, sull’isola artificiale progettata da Thomas Heatherwick e Signe Nielsen sul fiume Hudson c’è ben poco da fare

 

Breve storia di un progetto essenziale

Il 22 marzo 2020 il governatore Andrew Cuomo, dichiarata l’emergenza pandemica, annunciava la chiusura della maggior parte dei cantieri in costruzione nella città di New York, unica eccezione i circa 8.700 progetti classificati come essenziali, ovvero progetti di transito, strutture sanitarie, scuole, o progetti contenenti almeno il 20% di unità abitative sociali. Tra questi progetti essenziali c’era anche Little Island.

Secondo il «New York Times» l’idea del parco era nata nel novembre 2011 quando, ad una festa per i finanziatori della High Line, Diana Taylor dell’Hudson River Park Trust, la partnership nata nel 1998 tra la Città e lo Stato di New York incaricata della rigenerazione delle 4 miglia di lungomare sul fiume Hudson, aveva chiesto al filantropo Berry Diller se fosse interessato a finanziare la ricostruzione del sempre più deteriorato molo 55. Il Trust, da tempo in difficoltà economiche, soprattutto a causa degli alti costi di manutenzione delle strutture in ambiente fluviale, aveva già un primo progetto con un costo stimato di 35 milioni di dollari. La storia racconta cheDiller aveva accettato quasi subito, a condizione di realizzare qualcosa di ben più grandioso e che, altrettanto subito e come lui stesso avrebbe poi confermato, aveva già chiaro chi lo avrebbe realizzato: Thomas Heatherwick.

Nel 2014 i piani per il nuovo parco erano stati approvati e il costo del progetto stimato tra i 130 e i 160 milioni di dollari. La fondazione di Diller e sua moglie Diane von Fürstenberg ne avrebbe donati 130, mentre la città di New York avrebbe contribuito con 18 milioni. I lavori iniziarono nel 2015, ma a causa delle numerose azioni legali e dei costi eccessivi, che nel frattempo erano arrivati a 260 milioni, nel 2018 il progetto sarebbe stato abbandonato se lo stesso Cuomo non avesse accettato di allocare ulteriori fondi pubblici per coprire il restante 30% della costruzione del parco. Nel 2019 il progetto venne ribattezzato Little Island e inaugurato il 21 maggio 2021.

 

Where is the playground?

Qualcuno l’ha definita un’esperienza estetica sublime

, anche se, come già constatava la critica Alexandra Lange, elementi come l’acciaio postindustriale, le erbe “spontanee” e la topografia compatta sono diventati talmente onnipresenti che tali caratteristiche si trovano facilmente altrove in città. Si parla di viste mozzafiato, ma tanti altri luoghi pubblici a New York hanno delle viste non meno piacevoli.

Due parchi sul lungomare, costruiti negli ultimi 10-12 anni, offrono viste decisamente migliori di Little Island: il Brooklyn Bridge Park (poco più di 34 ettari, budget di costruzione iniziale 350 milioni) e Governors Island (17,5 ettari, budget di costruzione 191,1 milioni). Little Island, con i suoi 1,8 ettari, non è solo piccola, è anche fragile. L’estate scorsa è stata evacuata diverse volte a causa dei temporali, e già dieci giorni dopo l’apertura tutti i prati erano chiusi. Coincidenza, a un anno dall’apertura i prati sono ancora tutti chiusi e tra limitazioni e organizzazione dello spazio, c’è poco da fare sull’isola. Arrivando si legge niente bici, pattini, skateboard o scooter, niente cani, niente musica, niente alcolici. Poco più in là, un cartello indica The Play Ground una piazzetta con dei tavolini e i food truck dove per 8 dollari si può comprare la birra che è vietato portare da casa.

In assenza di alternative non resta che sedersi ad aspettare o incamminarsi per raggiungere uno dei punti più in alto. Scelgo di aspettare e mi siedo a guardare l’incessante flusso di persone snodarsi lungo i sentieri, e l’esperienza sublime di Little Island mi ricorda forse più la rappresentazione del purgatorio nelle illustrazioni della Divina commedia che il giardino dell’Eden.

 

Spatial Justice? Tra disinvestimento e urban renewal

Con il World Trade Center sullo sfondo, simbolo di una rinascita urbana post-traumatica, Little Island voleva essere anch’esso un progetto di rinascita, una rigenerazione post-decadenza di un’area dismessa costellata da strutture industriali che negli ultimi vent’anni era stata piano piano trasformata in una striscia continua di verde, con una pista ciclabile e moli per le attività ricreative.

Eppure, in un quartiere d’élite come quello del Meatpacking District, probabilmente la più grande gentrificazione di New York dopo Soho negli anni ottanta, con la High Line a meno di un isolato di distanza e il Whitney Museum dall’altro lato della strada, sembra difficile parlare ancora di rigenerazione.

La sociologa Hillary Angelo in How Green Became Good nota come la narrativa dell’inverdimento delle città è stata spesso dominata da progetti urbani eccezionali, come Central Park. Tali progetti non solo richiedono enormi investimenti di tempo e risorse ma, in un mondo in cui le risorse sono limitate, rappresentano chiaramente una scelta del dove spendere queste risorse. Quali priorità guidano certe scelte? Queste decisioni non sono neutre o casuali ma riflettono, almeno fino ad un certo punto, presunzioni di universalità su ciò che sia bene.

Per testare l’equità dei suoi investimenti nel 2014, l’agenzia governativa del New York City Park aveva deciso di osservare più da vicino come erano stati distribuiti i finanziamenti negli ultimi vent’anni. L’analisi aveva rilevato che più di 200 parchi risultavano sottoinvestiti, con un fabbisogno di capitale combinato di oltre 1 miliardo di dollari, e che il 54% di questo disinvestimento risultava concentrato in quartieri con una densità di povertà superiore alla media. Molti di questi parchi, nient’altro che rettangoli d’asfalto con qualche vecchia e deteriorata attrezzatura da gioco, erano spesso vicini tra loro, a conferma che la mancanza di accesso al verde pubblico era di fatto concentrata in alcune comunità, e sollevando la questione della partecipazione e della rappresentazione nel processo di pianificazione, soprattutto al momento di decidere le priorità.

Tra i progetti in corso sul fiume Hudson ci sono la ristrutturazione della Gansevoort Peninsula e il molo 57, le due strutture accanto a Little Island. Allorché nel marzo del 2020 a causa dell’emergenza pandemica la maggior parte dei progetti veniva momentaneamente sospesa e il budget per il verde pubblico veniva ridotto di 84 milioni, il rinnovo del molo 57, nonostante i numerosi lavori d’interni, compreso l’allestimento degli uffici di Google, non si è interrotto perché considerato, come Little Island, fondamentale. La passeggiata di fronte a questi nuovi moli, nonché il restauro dell’originale struttura in metallo del molo 55, dove è stata costruita Little Island, sono stati interamente finanziati con i federal transportation funds, ovvero fondi pubblici.

 

Un parco per chi?

Qual è lo scopo di un parco? Il suo uso, quando e dove?

Il parco, come costituente della forma urbana, non è statico, ma costantemente in divenire. Qual è l’impatto ecologico delle forse 10.000 tonnellate di cemento di Little Island? Quanto costerà la sua manutenzione alla città, non solo in termini economici ma anche sociali? Henri Lefebvre parlava di “produzione sociale dello spazio” e non c’è bisogno di scomodare Foucault (1975) o Winner (1980) per affermare che qui l’artefatto parco e la sua disposizione materiale-spaziale incarnano relazioni sociali e di potere.

Vietare le biciclette, i cani, i barbecue o la birra da casa, vuol dire limitare di fatto l’accesso a un certo tipo di comunità e non è necessario un intento di controllo per parlare di atto politico. La politica, con i suoi permessi e divieti, è anche la distribuzione del desiderio. Prevenendo o imponendo determinate azioni, incoraggiando determinati tipi di comportamenti piuttosto che altri e innescando un senso d’identificazione o riconoscimento, lo spazio non è un poligono inerte. Quando la giustizia ha una geografia, come nota Dana Cuff, una strategia di progettazione e pianificazione spaziale diventa fondamentale per contrastare l’ingiustizia urbana e creare una distribuzione e un accesso equo alle risorse cittadine.

Fino a oggi Little Island è costata 260 milioni e Diller stima che, tra manutenzione e programmazione degli eventi, potrebbe finire per spendere 380 milioni entro i prossimi 20 anni. Secondo Michael Kimmelman del «New York Times»: il più grande regalo privato a un parco pubblico nella storia della città, “forse del pianeta”. La stessa Signe Nielsen aveva dichiarato che neppure nei suoi “sogni più sfrenati” avrebbe mai progettato nulla di simile se non fosse stato garantito il livello di manutenzione promesso da Diller. Ma Diller si è impegnato ad occuparsi della manutenzione solo per i prossimi vent’anni, poi sarà compito della città.

Se la fotogenica Little Island, capace di attrarre masse di visitatori, è senza dubbio un successo sui social media, sembra però sollevare una questione etica: chi abbiamo in mente quando pianifichiamo la costruzione di un bene pubblico? Come notava Philip Kennicott per il «Wall Street Journal» l’ubicazione, la progettazione e la governance dei parchi non dovrebbero essere una questione di consenso pubblico, prima che di diktat privato? Forse andrebbe chiarito cosa intendiamo con pubblico. Oggi 75.000 newyorchesi non hanno uno spazio aperto a meno di 10 minuti a piedi. Sollevare la questione del restituire valore etico a progetti di spazio pubblico vuol dire cercare quel valore, nella consapevolezza dell’impatto che ogni azione progettuale ha non solo sull’utilizzatore finale, ma anche sulla scelta di disinvestimento che ogni processo d’investimento necessariamente porta con sé.

 

Autore

  • Laura Villa Baroncelli

    Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Torino si trasferisce a Parigi dove si laurea in Sociologia e inizia la sua carriera come fotografo. Nel 2015 intervista Yona Friedman e inizia ad appassionarsi di studi urbani. Lo stesso anno si trasferisce ad Arcosanti dove collabora con gli archivi Soleri e la Fondazione Cosanti fino al 2019. Il suo lavoro appare in numerose riviste tra cui il T del New York Times Magazine, M di Le Monde, D di Repubblica, IL Sole 24 ore, AD Italia, Forbes, Vogue. Attualmente vive e lavora a New York City.

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Last modified: 5 Maggio 2022