Il Report Istat 2020 evidenzia nel primo anno della pandemia un calo di visite del 72%, ma non è indicatore sufficiente per comprendere la situazione in cui versano
Nel primo anno della pandemia crollo dei visitatori nei musei, aree archeologiche, monumenti e complessi monumentali. Il Report ISTAT 2020 conferma, con una dettagliata ricognizione, l’importante flessione dei visitatori, del 72%, che ha duramente colpito il settore, specialmente quello dei musei statali (-76%) rispetto all’anno precedente. Non è bastato che il 92% delle strutture museali si fosse impegnato a riaprire e restare aperto al pubblico, quando consentito, dopo la chiusura obbligatoria stabilita per legge per contenere la diffusione del Covid-19, tra fine febbraio e maggio e tra novembre e dicembre. I visitatori non sono tornati a varcare le porte dei musei. In assenza dei numeri di massa del turismo internazionale, in stato emergenziale la cultura non è avvertita come “un bene di prima necessità” o una cura dell’anima quanto meno dalle comunità locali. Il censimento non lo dice. Sarebbe stato interessante saperlo, dato che dal 2015 sono equiparati ai servizi pubblici essenziali. Ai quali, evidentemente, si può ben rinunciare.
Bisogna investire sul rapporto con le comunità locali
Non a caso dal report emerge proprio che il rapporto con la comunità locale sia la risorsa su cui serve investire di più: l’engagement dei visitatori attraverso le visite online su cui si è molto puntato non deve, insomma, far perdere di vista la fidelizzazione dell’utenza a km 0. Tra le misure compensative, per garantire un “accesso” alternativo a collezioni e patrimonio open air, 7 musei su 10 hanno promosso, infatti, modalità di visita online.
La fotografia dell’ISTAT restituisce un patrimonio in gran parte pubblico (67,9%) e con una diffusione capillare: un comune italiano su quattro (26,7%) ospita almeno un museo o un istituto similare, in prevalenza musei civici. Anche se quasi la metà dei visitatori ha continuato a concentrarsi in sole 10 città: Roma, Firenze, Venezia, Milano, Siena, Torino, Pisa, Napoli e le new entry di Trieste e Ravenna, al posto di Verona e Pompei.
I servizi online
Quando non è stato possibile varcare fisicamente le porte di un museo, ci si è organizzati per erogare servizi online. Lo ha fatto il 73% delle strutture museali. Di queste, la maggioranza (63,6%) ha realizzato attività a distanza di comunicazione e informazione attraverso i principali social media (Facebook, Instagram, Twitter); il 46,1% ha incrementato o avviato iniziative d’informazione tramite piattaforme web dedicate; il 39,1% ha realizzato presentazioni in streaming delle proprie collezioni o proposto video interviste con esperti del settore; 3 musei su 10 hanno scelto di mettere a disposizione degli utenti tour virtuali. Dati che allineano l’Italia al trend internazionale emerso dal sondaggio NEMO (Network of European Museum Organisations) in riferimento allo stesso periodo, di cui ci eravamo occupati, e dal quale era emerso che oltre il 60% dei 650 musei considerati, aveva aumentato la propria presenza on-line, specialmente sui social, registrando un incremento delle visite virtuali del 40%.
Le condizioni di lavoro, queste sconosciute
Il report non registra, invece, le condizioni di lavoro in un settore che nel 2020 ha mobilitato quasi 48.000 operatori tra dipendenti ed esterni. Viene rilevata solo l’importanza del contributo di volontari, tirocinanti e stagisti: più di 14.000, in media 4 per struttura espositiva. E ancora, il 12% delle strutture ha un organico composto interamente da personale che opera in maniera volontaria e gratuita; in più della metà dei casi si tratta di musei civici (52,2%). Per cui l’ultima fotografia delle già drammatiche condizioni pre-pandemia in cui versano gli operatori resta quella fornita da “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”. Nemmeno la spinta alla digitalizzazione è stata occasione per far ricorso a figure professionali esterne (solo 24,3%), sebbene da dati emersi da un’altra indagine di cui abbiamo pure scritto, condotta dall’Osservatorio innovazione digitale sui Beni e attività culturali del Politecnico di Milano, abbia messo in luce la pesante carenza di personale specializzato: il 51% dei musei non si avvale di alcun professionista con competenze digitali. Per cui non siamo certi che il forte calo dei visitatori sia l’indicatore privilegiato per tastare il polso al paziente.
Immagine di copertina: il Parco archeologico del Colosseo nel 2019 è stato il museo più frequentato d’Italia, con oltre 7,5 milioni di visite
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coronavirus , musei
Last modified: 1 Marzo 2022