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Alessandro ColomboWritten by: Patrimonio

Ri_visitati. Masumiyet Müzesi: un po’ romanzo, un po’ museo

Ri_visitati. Masumiyet Müzesi: un po’ romanzo, un po’ museo

Il Museo dell’Innocenza ideato dal Premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk a dieci anni dalla sua apertura

 

ISTANBUL. Incastonato in una stretta via di un piacevole e storico quartiere che scende a picco sul Bosforo, Çukurcuma, il rosso cupo della piccola casa non lascia dubbi sulla natura speciale di ciò che ci aspetta. Come spiega il decalogo appositamente affisso all’ingresso, quasi un menù e un memento per chi non sapesse, qui tutto è programmaticamente pensato e realizzato per sovvertire l’idea di museo, pur rivendicandone orgogliosamente il nome, la qualifica e la funzione. Nel 2014, due anni dopo il debutto, il Masumiyet Müzesi viene premiato come museo europeo più innovativo. Del resto Orhan Pamuk, padre e ideatore della struttura, non è estraneo ai riconoscimenti, avendo vinto nel 2006 il premio Nobel per la letteratura.

 

Non abbiamo bisogno di più musei che cercano di costruire le narrazioni storiche di una società, comunità, squadra, nazione, stato, tribù, azienda o specie. Sappiamo tutti che le storie ordinarie e quotidiane degli individui sono più ricche, più umane e molto più gioiose.
(Orhan Pamuk, Un modesto manifesto per i Musei, punto 3)

Il Museo dell’Innocenza è sia romanzo che museo di Pamuk, insieme concepiti dall’inizio del progetto negli anni novanta. È un romanzo dell’amore perduto che l’autore “usa” per esplorare Istanbul, città della sua giovinezza (anch’essa perduta), ed è ambientato tra il 1974 e l’inizio degli anni 2000 presentando 50 anni di storia di due famiglie: una ricca, l’altra di ceto medio-basso. Il romanzo è stato pubblicato nel 2008, il museo inaugurato nella primavera 2012. Tutto ciò che i protagonisti del romanzo hanno usato, indossato, sentito, visto, collezionato e sognato, è meticolosamente esposto in scatole, vetrine e scansie, a volte al vero, a volte in scala a produrre deliziosi teatrini a metà strada fra il presepe e il plastico ferroviario che alimentano un voyerismo seriale.

L’ossessione del collezionista è drammaticamente enunciata all’ingresso: la prima grande bacheca contiene 4.213 mozziconi di sigaretta, tutte fumate da Füsun, l’amata perduta, e costituisce un inno alla forza della nostalgia e del ricordo (oltre che alla psicanalisi, la cui necessità terapeutica ci accompagna per tutta la visita).

Tutto è stato raccolto da Kemal, il “ricco” che s’innamora della cugina “povera”. Saliere, dipinti e mappe, tappi, bottiglie e abiti, fotografie, cartoline e ritagli di giornali, fino ad arrivare all’apoteosi della perfetta e “reale” ricostruzione della francescana camera da letto nella quale il protagonista avrebbe concluso la sua vita terrena dopo aver tramandato la sua storia allo scrittore. Tutto ci avvolge in un espediente letterario che ricorda, da una parte, il manoscritto ritrovato del Manzoni attualizzato al terzo millennio e, dall’altra, gli iperallesimenti di “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” di Damien Hirst, per la forza di convinzione della finzione, ma in scala ridotta per la gioia dei modellisti.

Se a questo aggiungiamo che, su avvertenza dell’autore, gli oggetti presentati, perfettamente reali, non vanno considerati come tali, ma come ricordi, il cortocirtcuito fra narrazione ed esposizione è compiuto e perfetto.

 

La misura del successo di un museo non dovrebbe essere la sua capacità di rappresentare uno stato, una nazione o un’azienda, o una storia particolare. Dovrebbe essere la sua capacità di rivelare l’umanità degli individui.
(Orhan Pamuk, Un modesto manifesto per i Musei, punto 5)

Un museo piccolo, ma una storia grande, anzi grandissima, significativamente narrata dalla forza evocativa degli oggetti scientificamente raccolti e ossessivamente esposti in uno spazio centripeto che, sulla spirale di una scala tanto disagevole quanto intrigante, ti porta a “sfogliare” spazialmente i capitoli della storia in un’identità fra parola e oggetto che è più che convincente. Ovviamente il visitatore tipo è un lettore assiduo di Pamuk, e non poco conta nel successo del museo il feticismo che la stima e l’ammirazione in un’opera letteraria, o artistica, spesso genera. Ma tutto appare ed è perfettamente equilibrato, mai forzato, meritevole di una visita e anche di uno o più ritorni, come si fa con un’opera che ad ogni rilettura riserva sempre qualche cosa di nuovo, qualche aspetto da scoprire, qualche dettaglio nel quale riconoscersi, qualche carattere da amare.

 

Gli edifici monumentali che dominano quartieri e intere città non fanno emergere la nostra umanità; al contrario, la annullano. Invece, abbiamo bisogno di musei modesti che onorano i quartieri e le strade e le case e i negozi vicini e li trasformino in elementi delle loro mostre.
(Orhan Pamuk, Un modesto manifesto per i Musei, punto 10)

Il progetto di Pamuk vorrebbe indicarci anche la possibilità di ridisegnare le nostre città, i nostri quartieri, con un rispetto per il tessuto minuto che disconosce totalmente la forza architettonica e urbana del “museo monumento”, del “gesto” come va, anzi, ad affermarsi nel mondo. Seguendo Pamuk “lo scopo dei grandi musei sponsorizzati dallo stato… È quello di rappresentare lo stato. Questo è un obiettivo né buono né innocente”. Oggi assistiamo all’avventura delle grandi istituzioni, Louvre e Guggenheim ad esempio, che si espandono in “nazioni non occidentali sempre più ricche”, invece di “esplorare e scoprire l’universo e l’umanità dell’uomo nuovo e moderno”, come vorrebbe il Nostro.

Dunque, questo del Museo dell’Innocenza è un modello non avverato? Una strada non praticata e non praticabile per il futuro dei musei? Un’avventura del tutto personale impossibilitata a segnare un cambiamento?

No, forse l’oggettiva mancanza nel mondo di musei come quello di Çukurcuma Caddesi, o comunque la loro non nascita, si spiega con la difficoltà di reperire altri narratori in grado di esprimere una scrittura sulla pagina, nel tempo e nello spazio come quella che ritroviamo nella visione di Pamuk. In ogni caso mai disperare: continuiamo a scrutare il mondo reale e quello dei libri in cerca di “altre storie” mirabilmente narrate e rappresentate come questa.

 

 

Autore

  • Alessandro Colombo

    Nato a Milano (1963), dove si laurea in architettura al Politecnico nel 1987. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati International. Nel 1991 vince il Major of Osaka City Prize con il progetto: “Terra: istruzioni per l’uso”. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura ove ottiene riconoscimenti. Nel 1998 è socio fondatore dello Studio Cerri & Associati, di Terra e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per il restauro e la trasformazione della Villa Reale di Monza e il Compasso d’oro per il sistema di tavoli da ufficio Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster presso l’Expo 2015

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Last modified: 18 Gennaio 2022