Realizzata nel 1957 da Luigi Moretti per la famiglia Pignatelli d’Aragona Cortès a Santa Marinella, è stata restaurata filologicamente e ora si apre per eventi e visitatori
Il passato
Sono passati circa sette anni dal suo completamento quando Gio Ponti presenta, su “Domus” dell’ottobre 1964, la “Saracena”, in un articolo nel quale si illustrano anche altri due progetti di Luigi Moretti: i complessi residenziali Watergate a Washington e di Genova-Nervi. L’articolo restituisce tre sfaccettature della fase più matura del lavoro dell’architetto romano (1907-1973), nella quale si manifesta con evidenza quel modo “neobarocco” di conformare spazi sinuosi, concavi e convessi, articolati in sequenze di sapore organico, quasi “vegetale”.
La villa di Santa Marinella (Roma) costituisce uno dei vertici della sperimentazione sul tema della casa unifamiliare, che Moretti ha già più volte affrontato nel suo percorso progettuale e sul quale tornerà in seguito, senza raggiungere però la compiutezza formale di quest’opera esemplare. La “Saracena” apre infatti una fase nuova del suo lavoro, nella quale si sedimentano quelle linee di ricerca che nell’attività precedente avevano prodotto opere di qualità assoluta, come la Casa della scherma al Foro Italico, le palazzine dei tardi anni quaranta o il complesso di Corso Italia a Milano, ma che adesso, forse anche grazie alle riflessioni maturate su “Spazio”, la rivista diretta da Moretti tra il 1950 e il 1953, trovano una loro sintesi originale.
Nella villa di capo Linaro, infatti, trova un’organica applicazione la concezione degli spazi per fuochi visivi che traducono in forme architettoniche quei modi conformativi che l’architetto individuava nella scultura barocca. Con questa casa tanto chiusa e introversa verso terra, a proteggere la riservatezza dei suoi abitanti, quanto aperta e permeabile verso il mare, Moretti disegna un organismo che riusa i caratteri archetipi dell’architettura mediterranea, declinandoli però con una sensibilità tutta moderna. “È una casa di sapore tanto mediterraneo da toccare il gusto della casa araba, serrata, odorosa di frescura. Vi è come una memoria della Zisa di Palermo e delle case egee”, scrive in una relazione di progetto. Un’architettura materica, nella quale “la superficie di tutte le (…) pareti è scabra e come incastrata da secoli in un mare strano e luminoso”, strutturata attorno alla lunga galleria che, scendendo dall’ingresso alla zona soggiorno, tripartisce la pianta. A sud-est il corpo alto delle stanze da letto padronali, a nord-ovest i servizi e le stanze degli ospiti, alle quali si aggiungono ambienti di servizio seminterrati.
L’architetto organizza un percorso che dalla corte ellittica di accesso su strada è cadenzato da una successione di compressioni e dilatazioni dello spazio, da biforcazioni, marcate dalla sapiente modulazione della luce che alterna penombra e luminosità diffusa. Una sequenza che, varcata la soglia della casa, offre una visuale ininterrotta sul mare e sul giardino, vero e proprio salone all’aperto.
L’intero edificio è pensato come una messa in scena di contrasti tettonici, materici e luministici. Alla vibratilità ruvida delle pareti verticali interne ed esterne si contrappongono le superfici lucide dei pavimenti in ceramica napoletana. Alla chiusura quasi integrale della parete nord-ovest della galleria, che nasconde la vigorosa struttura calcolata da Silio Colombini, si oppongono le finestrature continue del fronte opposto, che con i loro tagli orizzontali smaterializzano la massa muraria, lasciandone dei frammenti galleggianti, separati anche dalla soletta di copertura da una fascia vetrata. Una dicotomia che racconta esemplarmente la propensione morettiana alla concezione di spazi sottilmente inquieti nella loro difficile interpretabilità tettonica.
Negli anni successivi due altre ville progettate dall’architetto affiancheranno la “Saracena” sul capo Linaro: la “Califfa” e la “Moresca” (questa completata con qualche difformità dopo la sua scomparsa), senza raggiungerne l’equilibrio e la compiutezza spaziale.
Il presente
Venduta
negli anni settanta dalla famiglia Pignatelli d’Aragona Cortès, per la quale era stata progettata, la villa nei suoi diversi passaggi di proprietà è stata soggetta a un degrado sempre più accentuato. Un processo legato anche alla difficoltà di manutenzione di un edificio caratterizzato da soluzioni costruttive e tecnologiche poco comuni in un contesto ambientale aggressivo come quello marino.
Nel 2010 è stata sottoposta a vincolo monumentale dal Ministero dei Beni culturali e inserita nel censimento delle architetture italiane del secondo Novecento dello stesso ministero, oltre ad entrare a fare parte della rete delle Dimore storiche del Lazio.
Nel 2016 iniziano i lavori di restauro, coordinati da Paolo Verdeschi. Un recupero filologicamente meticoloso che ha consentito di ripristinare quasi integralmente l’aspetto originario della casa, sia nei suoi caratteri strutturali, con la ricostruzione dell’articolato sistema degli infissi della galleria e della pensilina a copertura della terrazza sul mare, sia negli arredi degli ambienti principali e dei servizi. Il lavoro di reintegrazione degli intonaci originari ha portato alla scoperta di alcune coloriture scomparse nel tempo, sia negli interni, sia in alcune pareti esterne. Impossibile, invece, il recupero dello scultoreo cancello metallico realizzato dall’artista Claire Falkenstein per il “grottone”, l’ambiente posto nel basamento sul quale poggia la villa, completamente eroso dagli agenti atmosferici.
Il futuro
Il completamento del restauro nel 2020, a poco più di sessant’anni dalla sua realizzazione, segna in certo qual modo la rinascita di questo capolavoro dell’architettura italiana del Novecento, dopo una fase di oblio che ne ha messo a rischio la sopravvivenza.
Un recupero che nei propositi dell’attuale proprietà vede nella villa un set ideale per eventi e cerimonie, oltre che meta di visite organizzate per i cultori dell’architettura moderna, come in occasione della 9° edizione di Open House Roma (2-3 ottobre 2021). Un destino che se da un lato nega in parte quella dimensione aristocratica, sospesa, “gelosa degli affetti e dei pensieri” dei suoi originari abitanti con la quale l’altrettanto aristocratico Moretti aveva concepito la casa, dall’altro riporta una delle sue opere più significative al centro di un’attenzione più allargata. Consentendo così, a un pubblico potenzialmente ampio, di comprendere quanto la sintonia tra luogo e architettura costituisca uno dei caratteri profondi della migliore produzione della modernità italiana.
Immagine di copertina: © Francesca Pompei
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Last modified: 20 Ottobre 2021