Il continuum distopico della mostra all’Arsenale prosegue con la maggior chiarezza del padiglione centrale ai Giardini. Di vita propria vivono i padiglioni nazionali, mentre si celebra il de profundis del QR code
Riconosciuti i meriti di un’istituzione che ha avuto la capacità e la possibilità di ripartire, non si può non constatare che in questa Biennale molti dei nodi irrisolti, propri di questo tipo di evento, vengano al pettine. Come l’aspetto della pelle e il colore degli occhi sono spesso le spie del nostro stato di salute, così gli spazi della Biennale e il loro allestimento ci dicono non poco sullo stato dell’arte, o dell’architettura per meglio dire.
Il continuum distopico dell’Arsenale
Entrando alle corderie dell’Arsenale – spazio meraviglioso anche vuoto, punto di partenza non da poco – si comprende come Arte e Architettura abbiano ormai lo stesso registro comunicativo – l’installazione – e che l’Arte e gli Artisti, anche solo per più lunga frequentazione dello strumento, siano maggiormente efficaci e più convincenti nell’esprimere nello spazio fisico concetti e problematiche.
Tale è la predominanza dell’installazione che l’allestimento, e il suo progetto, sembrano non servire più. Scorrendo il colophon della mostra non si trova neanche un responsabile del progetto di mise en scène, segno che l’installazione, una volta scelta e messa al servizio del tema dato, possa auto-collocarsi nello spazio e così, sic et simpliciter, dare luogo alla mostra, lasciando a qualche pannello scritto (e a molti QR code) il compito di informare, spiegare, mediare con il pubblico, forse anche di rendersi intellegibile.
È una sorta di continuum distopico quello che ci troviamo di fronte, un clima da narrativa fantasy che si palesa in installazioni che ci riportano a un tempo originario da una parte (impersonificato da popolazioni arcaiche o da esseri alieni, umanoidi, microbici o minerali che siano, rigorosamente in scala 1:1), dall’altra a un futuro che aspettiamo si avveri da più di cinquant’anni anni (che ritroviamo in base luna ora accuratamente progettata da bravi ingegneri e pronta per costituire il trampolino di lancio verso Marte). Nuovi materiali, antichi materiali, progetti: tutto è presentato a guisa di prototipo – posato in uno spazio usato come un catalogo – che chiede di essere consultato e, forse, scelto. La mente va alle illustrazioni di Karel Thole e dei suoi colleghi, che mezzo secolo fa ci aprivano a mondi racchiusi nel cerchio della copertina di Urania, mondi che potevamo scegliere di visitare in edicola, con poche lire, all’epoca. Ora certo i temi in gioco sono estremamente seri, ma l’allestimento e la grafica non sembrano essere così importanti nella partita.
Il padiglione centrale ai Giardini
Al padiglione centrale dei Giardini la sequenza spaziale funziona meglio, ma giusto perché le sale una volta nazionali (italiane) danno dei limiti ed è, quindi, più facile allestire, o almeno collocare. Così si passa da una suggestiva ricostruzione di una caverna del Kenya ridisegnata con frammenti di pietra ossidiana – che tra l’altro assomigliano moltissimo agli scarti della lavorazione del vetro così familiari a Murano, i cotissi – a un blocco di neve che si scioglie nonostante il cappotto termico – non si capisce se gli inservienti che si affannano ad asciugare i rivoli di acqua di fusione facciano parte dell’installazione o no – fino alla sala centrale alta 5 metri, affastellata di oggetti, racchiusa in una timeline di foglietti appiccicati alla parete che, forse, vogliono dare il tono di un laboratorio, ma non ci riescono (tattica, ahimè, adottata anche nel padiglione italiano rendendo poca giustizia alla ricerca condotta).
Al contempo non si possono non apprezzare gli sforzi di chi, lo spazio della sala data, presenti progetti con rigore, eleganza ed efficacia, come il giardino biopolitico dello studio Viganò ricco di modelli, documenti e perfino di disegni/arazzo, o l’Antartic Resolution ove il fragore del metallo vibrato suona come una campana a morte sui destini del mondo, è vero, ma si presenta con la forza di una parete metallica che dialoga con l’esploso di un tomo offerto alla libera consultazione, sanificazione inclusa.
I padiglioni nazionali
I padiglioni nazionali vivono di vita a sé, come sempre, ma ancor più in questa edizione. Raffinati allestimenti analogici si confrontano con solidi modelli o anche prototipi a scala reale. Si passa dalla leggerezza e incertezza dei fogli di carta della Spagna, instagrammatissima, alla solidità del balloon frame americano che si erge sicuro a protezione del piccolo padiglione neo-palladiano ricco di deliziosi modelli in legno (qui anche la cuccia del cane spopola sui social). Il legno è il passepartout della mostra, e costruzioni o allestimenti lignei vengono a soccorso di molti. In Wood We Trust, potremmo dire.
Per fortuna qualcuno si ricorda anche della grafica e l’Olanda non ha timori ad usarla per disegnare lo spazio. L’approccio storico è scelto da molti: per pensare al futuro ristudiamo il passato, sicuramente più sostenibile. Ne risultano belle esposizioni, dalla Finlandia – che gioca in casa grazie al padiglione gioiello di Alvar Aalto – al Belgio, alla Grecia, al Brasile, al Cile, al Giappone: tutte a testimoniare che si può comunicare anche senza dover inventare nuovi mondi ogni volta. Sempre viva anche la tipologia del padiglione esperienziale, con la Danimarca che ti invita a gustare una tisana fatta con l’acqua piovana raccolta, l’Inghilterra che dedica un giardino di delizia all’incolpevole Hieronymus Bosch, e la Germania, della quale diremo fra poco. E il mondo virtuale informatico?
Ascesa e caduta del QR code
Per anni il QR code ha sonnecchiato come strumento accessorio alle dinamiche dell’esporre. Nato come strumento di riconoscimento e tracciamento, è diventato poi identitario e, alla fine, il magico tramite per collegare mondo reale e mondo virtuale, fisicità dello spazio e incorporeità dell’informazione, ovviamente collocata nel web. Ora i ruoli si ribaltano e il nostro QR code diventa protagonista in Laguna. Si mette al servizio delle norme anti-covid e sostituisce cartelle stampa e cataloghi ma, non contento, inizia a comparire ovunque promettendo chissà quali informazioni e le chiavi per aprire mondi paralleli: dai testi alle didascalie, dai pannelli alle tovaglie, dalle opere ai padiglioni.
Ai due opposti, la Russia presenta un padiglione storico vuoto, ma perfettamente restaurato, per far pensare a quello che verrà e che si potrà fare, mentre la Germania offre sale vuote ostaggio di bolli a terra e QR code a parete per rimarcare quello che non c’è più, da una parte, e quello che non c’è ancora, ma avverrà nel 2038, dall’altra (e andrà tutto bene).
Il QR code, giunto a soccorso dello spazio fisico e del mostrare, denuncia tutta la sua inefficacia di strumento che, se nel mondo virtuale ci ha ingannato con le sirene di una realtà “altra” oltre a quella fattuale, posto nei padiglioni della Biennale fa capire quanto ci si sbagli a tentare la sostituzione di un mondo all’altro e, anzi, suona come de profundis di se stesso. Se il mondo virtuale trae la sua linfa da quello reale e fa pensare ad una possibile autonomia, il mondo reale che chiede di esistere grazie all’informazione tecnologica apre solo dei vuoti. Forse vale la pena di allestirli e di non aver paura di parlare di architettura.
Vademecum (per sapere cosa attendersi da un’esplorazione soggettiva fra colori e atmosfere)
Spagna
. Padiglione in bianco e nero, una “nuvola” di fogli stampati, tutti uguali, affronta il tema dell’incertezza. Unica eccezione cromopolis, piccolo modellino di città dai mille colori: forse una speranza?
Belgio. I colori dell’architettura. La cortina viaria di una città immaginaria ci accompagna in un viaggio attraverso tipologie e colori dell’architettura belga.
Olanda. Uno sguardo al passato attraverso colori e geometrie della grande tradizione razionalista olandese rivisitata con estrema eleganza.
Padiglione centrale. Una Biennale verso il futuro tornando all’origine degli elementi. L’uomo non è più al centro dell’universo. Due i codici colore: i colori della terra (un modo concreto di rappresentare la diversità degli uomini e dello spazio che abitano: The earth is an architecture) e i colori della scienza, privi di profondità sfumano e vibrano uno nell’altro e ci parlano di un mondo altro dove lo spazio non è più dell’uomo.
Finlandia. Si racconta una storia con semplicità e bellezza. Immagini e documenti sono tenuti insieme dal morbido tono di quel legno chiaro che da sempre rimanda al grande design scandinavo.
Stati Uniti d’America. Un padiglione di “difesa”. La grande e suggestiva parete a balloon frame costruita sul fronte riporta ad una visione domestica dell’America dei coloni. Il colore dominante è quello della natura dei giardini della Biennale visti attraverso la struttura.
Australia. Icona assoluta del padiglione QR code tipicizzato da questa Biennale.
Israele. Terra, latte e miele, titolo evocativo di una dolcezza estremamente terrena. Sezione di un asettico laboratorio extraterrestre, il padiglione dedicato al lamierino d’acciaio parte dalla storia delle fattorie di allevamento per arrivare ad inquietanti contenitori sempre in acciaio che espongono la bellezza mummificata della vita del nostro pianeta e ci conducono, sotto una fredda luce blu, ad un futuro post-umano.
Brasile. Padiglione della storia e del passato. Nostalgico, il colore è quello indefinito del ricordo.
Paesi Nordici. Una casa nella casa. Si inserisce perfettamente nell’atmosfera della tradizione scandinava. Il colore dominante è quello biondo del legno: qual altro poteva essere?
Danimarca. Del colore dell’acqua, ovvero il padiglione come macchina domestica ad acqua piovana per la produzione di tisane.
Francia. Il colore della città multietnica attraverso foto e video. L’uomo torna al centro dello spazio che abita e diventa tessuto connettivo della città. Multicolore
Inghilterra. Un padiglione colore “rosa e celeste” effetto candy crush. Ma non ditelo ai colori di Hieronymus Bosch
Germania. Il colore indefinito “della paura”. La misura dello spazio come soluzione: un metro per me, un metro per te, un metro fra di noi.
Canada. Padiglione chiuso ed impacchettato, alla maniera di Christo, in un telo verde… speranza? Sempre meglio di un QR code
Giappone. “Il cielo in una stanza”. Su un pavimento azzurro cielo giace l’architettura smontata di una casa giapponese. Ogni pezzo racconta una storia monocromatica.
Corea. Il gatto ti accoglie e tramite schermo sei collegato coi curatori. Colore di un prato di erba alta che non puoi calpestare.
Russia. Ritorno dal passato. Il padiglione mette in mostra un restaurato sé stesso. L’atmosfera è serena, luminosa, la storia ritorna sulle pareti attraverso piccoli disegni dai delicati colori pastello. Tutto è pronto per guardare al futuro.
Svizzera. Il colore evanescente dei modellini domina lo spazio. L’occhio si perde, si perdono gli spigoli, i limiti, i confini dei luoghi ed il loro perché. Mistica del tubo e giunto e del modulo con grande uso della zincatura.
Austria. Una piattaforma per l’architettura. Super grafica neo-espressionista colorata e pop.
Arsenale-Corderie
Uomini, superuomini, mutanti e mutati in un caos primordiale illuminato da luci e proiezioni. Alle corderie l’architettura è opera di comunità non definite e la forma del costruito è sempre più simile ad un incubo (anche sonoro). A rassicurare torna il legno, solo e soltanto il legno color legno.
Irlanda. Follia post tecnologica color tubo catodico.
Cile. Delicata struttura in legno super blu. Interno con dipinti. Rassicurante.
Taiwan. Nero su sfondo nero.
Italia. Colori? Troppo buio per dire.