Germania, Corea, Finlandia, Uruguay Egitto, Albania, Kosovo, Lettonia, Croazia, Singapore
Chiamiamoli bocciati, se vi va, equamente divisi tra Giardini e Arsenale, 5 e 5. Sono Padiglioni che ci hanno trasmesso poco o nulla. Che sembrano, a noi almeno, non offrire buone interpretazioni al tema e nemmeno una visita piacevole.
Germania, Corea, Finlandia, Uruguay ed Egitto
La sorpresa di questa lista si chiama Germania: 2038 “The New Serenity” vorrebbe raccontare il mondo futuro. Il risultato è un padiglione completamente vuoto con alcuni QR code stampati alle bianchissime pareti. Interazione (unica possibile) affidata allo smartphone. Altrimenti nulla.
Appena dietro al vuoto tedesco c’è il piccolo Padiglione Corea: l’idea era di raccontare le possibili evoluzioni dei luoghi della formazione (“Future school”: perché con una cultura meglio diffusa si può vivere meglio insieme, ipotizziamo). Il risultato è uno spazio senza gerarchia e senza un filo logico, il cui elemento di richiamo è un grande gatto bianco e nero che però, ti avvisano subito, “non ha un buon carattere”.
Meglio avviarsi quindi verso il piccolo Padiglione Finlandia che, cercando un’improbabile connessione con lo spazio disegnato da Alvar Aalto, racconta la storia delle case prefabbricate in legno Puutalo Oy, dal 1940 al 1956. Oggi cosa resta di quell’esperienza? Poco o nulla, e allora non si capisce molto la retrospettiva “New Standards”.
Rientra nella categoria il lavoro visitabile al Padiglione Uruguay: un grande tavolo. “Próximamente” non va molto oltre la dimensione della suggestione della distanza e della rinnovata prossemica, causa emergenza sanitaria. Sempre ai Giardini, troviamo “The blessed fragments” dell’Egitto: frammenti, appunto, di una storia difficile da cogliere.
Albania, Lettonia, Croazia, Kosovo e Singapore
Ci trasferiamo invece all’Arsenale (chi lo vuole fare…) per gli ultimi 5 padiglioni. Quattro di questi li troviamo in infilata: l’Albania presenta l’installazione “In our home” in un poco convincente tentativo di ragionare sul senso dei rapporti tra abitanti dello stesso luogo. Poco oltre, nella stessa stanza, Lettonia da una parte (“It’s not for you! It’s for the building”) e Croazia (“Togetherness/togetherless”) dall’altra riempiono lo spazio con installazioni che paiono poco pregnanti. Così come il Kosovo, il cui contributo alla Biennale è un container pitturato di bianco. Se il titolo ha un qualche elemento di suggestione, “Containporary”, il risultato lascia un po’ interdetti e forse fa venire qualche idea su cosa, virtualmente, depositare in quel container. Magari anche le suppellettili varie che, al piano primo delle Sale d’Armi, mette in mostra il Padiglione Singapore con “To gather the architecture of relationships”.
Ma da qui, almeno, c’è la vista mozzafiato sulla Darsena Grande dell’Arsenale e l’impressione che comunque la Biennale continua ad essere, come ha detto Rafael Moneo ritirando il Leone d’Oro alla carriera “il libro aperto che permette a noi architetti di trovare il senso dell’Architettura”. Al di là dei suoi top e dei suoi flop. O forse proprio perché ci sono quei top e quei flop.
Leggi la nostra classifica completa:
Come non perdersi tra i 60 padiglioni nazionali, la nostra classifica con il meglio e il peggio di Biennale#17
1. I padiglioni top, da non perdere
2. Più o meno belli, comunque decisamente “sul pezzo”
3. Esperienze coinvolgenti, ma che c’azzeccano?
4. Alziamo le braccia, non li abbiamo capiti
5. Nulla di indimenticabile, vivevamo anche senza