Filippine, Slovenia, Bahrain, Cile, Messico, Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti, Ungheria, Grecia
Anche in questa lista ci sono Padiglioni di grande impatto visivo, piacevolissimi da visitare, ottimi per fotografie da instagrammare. Ma il cui significato, almeno a una visita veloce (ovvero la modalità del 99% di chi passeggia per la Biennale), risulta oscuro quanto la luminosità di Padiglione Italia. L’infilata di partecipazioni nazionali in Arsenale è assolutamente esemplificativa in questo senso.
Filippine, Slovenia, Bahrain, Cile e Messico
Le Filippine (“Structures of mutual support”) piazzano al centro una struttura in legno, spazio collettivo, a rappresentare modi di vita comunitaria. La Slovenia (“The common in community”) il legno lo usa invece per costruire una sorta di installazione di grafici a rappresentare attività e fortuna dei suoi circoli cooperativi. Il Bahrain (“In Muharraq: the pearling path”) costruisce una enorme – peraltro bellissima – plancia su cui dispone una serie di modelli che rappresentano attività di rigenerazione urbana legata alla pesca delle perle. Il Cile è più tridimensionale, definisce una stanza (“Testimonial spaces”) completamente ricoperta all’interno da 500 dipinti, in forma di ex-voto. Dall’altra pare della strada il Messico gioca sul tema della dislocazione – da qui il nome “Displacements” – con un’elegante sequenza di fili appesi che “sentono” il passaggio dei visitatori.
Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti
Ma anche ai Giardini alcune partecipazioni nazionali non sfuggono ad un certo gusto per l’allestimento complesso. Tendenza (difetto?) che non risparmia alcuni paesi leader nell’architettura contemporanea. Iniziando dall’Olanda, il cui “Who is we?” sembra più un artificio per rispondere provocatoriamente alla domanda della Biennale che un’apertura verso una dimensione possibile. E si fatica a cogliere anche gli (opposti) approcci del mondo anglosassone: il Padiglione Gran Bretagna (“The garden of privatised delights”) affida ad uno strano e grottesco percorso, ispirato a Hieronymous Bosch, un tentativo di rivendicazione di maggiore collettività di alcuni spazi privati. Gli Stati Uniti invece piazzano una grande (e fotografatissima) struttura in legno (“American framing”) a ricoprire il padiglione che, all’interno, racconta quel materiale come emblematico dell’ideologia americana.
Ungheria e Grecia
Poco lontano da lì, l’Ungheria fa un’esibizione importante (“Othernity – reconditioning our modern heritage”) sui temi della salvaguardia e del recupero, fallendo però l’obiettivo della chiarezza. Finiamo il giro dei padiglioni-boh con la Grecia e la sua ricostruzione dell’asse urbano Aristotele di Salonicco. Complicato già dal titolo: “Boulevard de la Société des Nations”, a.k.a. the Aristotle Axis in Thessaloniki.
Leggi la nostra classifica completa:
Come non perdersi tra i 60 padiglioni nazionali, la nostra classifica con il meglio e il peggio di Biennale#17
1. I padiglioni top, da non perdere
2. Più o meno belli, comunque decisamente “sul pezzo”
3. Esperienze coinvolgenti, ma che c’azzeccano?
4. Alziamo le braccia, non li abbiamo capiti
5. Nulla di indimenticabile, vivevamo anche senza