Il Demalling imperversa negli Stati Uniti. Oltre l’abbandono, quali prospettive per la riconversione
Il centro commerciale come lo conosciamo oggi fu inventato da Victor Gruen, architetto viennese che fuggì dall’Austria nazista nel 1938. Nel 1943, con la moglie Elsie Krummeck scrisse un saggio per «Architectural Forum» che proponeva un nuovo tipo di spazio pubblico completamente recintato, isolato e pedonale, in grado di ospitare svariate attività. L’obiettivo era quello di frenare il caos e l’espansione incontrollata dei sobborghi realizzando un luogo dove donne e bambini potessero godersi le giornate mentre gli uomini lavoravano in centro città. Il risultato non è stato esattamente quello che Gruen si aspettava ma, dagli anni settanta, i centri commerciali si sono poi diffusi su tutto il globo, portando a una delle più grandi standardizzazioni dello spazio urbano mai avvenuta. Si contano ad oggi, ad esempio, più di 500 centri commerciali in Brasile, 600 in India e 4.000 in Cina.
Demalling in USA, le tendenze
Il fenomeno della dismissione dei centri commerciali (Demalling) è sempre più attuale nei paesi più ricchi e sviluppati, Italia inclusa, e la sua accelerazione è una conseguenza ormai imminente della pandemia globale provocata dalla diffusione del Covid-19 da un anno a questa parte. A fine agosto 2020, si è espressa a tal proposito la Coresight Research Inc., società di ricerca e consulenza che si occupa di analisi mondiali di mercato.
Riguardo al mercato statunitense, già prima della pandemia si registrava un generale eccesso di offerta di spazi commerciali e, al momento, Coresight stima che il 25% dei circa 1.000 centri commerciali americani chiuderà nei prossimi 3-5 anni (alcune previsioni arrivano fino al 50%). Questo sarà un effetto a catena della chiusura di almeno 20.000 negozi fisici, di cui almeno il 50% proprio nei centri commerciali. A tal proposito, 27 importanti rivenditori avevano già dichiarato bancarotta prima di fine 2020. Secondo i dati raccolti da Moody’s Analytics REIS, la vendita al dettaglio diminuirà del 15,7%.
È stata anche stilata un’accurata previsione, basata sulla particolare unità di misura delle “vendite al piede quadrato” che classifica i centri commerciali in categoria A,B,C e D. Un centro di categoria A++, ad esempio, può fatturare fino a 1.000 dollari per piede quadrato (poco più di 9.000 euro/mq). Green Street Advisors, società che si occupa d’immobili commerciali, stima che ci siano circa 380 centri commerciali “non sostenibili a lungo termine”. Questo perché, viene evidenziato, circa il 90% di quelli statunitensi (e non solo) sono occupati per lo più da luoghi esperienziali quali cinema, catene di grandi magazzini e rivenditori di abbigliamento, più vulnerabili all’impatto del Covid-19 rispetto ai supermercati, che peraltro durante la pandemia non hanno mai chiuso, e agli outlet. CBL & Associates, fondo immobiliare che investe nei centri commerciali con sede in Tennessee, già in sofferenza a fine 2019, ha dichiarato che intende presentare istanza di fallimento a breve, anche a causa della sempre più diffusa insolvenza tra i locatari. Victor Calanog, analista immobiliare di Moody’s Analytics, ha rilevato che all’inizio di settembre 2020 il tasso di locali vuoti nei centri commerciali era al massimo storico del 9,8%, superiore al precedente picco del 9,3% nel 2011, ed “è altamente improbabile che le tendenze dei locali vuoti tornino ai livelli pre Covid-19“.
Tentativi e programmi per la riconversione
Occorre dunque ripensare questi spazi per evitarne l’abbandono, definendo pratiche virtuose di Remalling (ovvero il recupero dal punto di vista urbanistico, architettonico e funzionale). La prima opzione è quella di riconvertire i Dead-Malls (centri commerciali abbandonati) in spazi produttivi, date le ampie metrature e una proiezione dell’aumento dello sviluppo industriale del 3,6%.
Lo stesso Calanong afferma che il cambio di destinazione d’uso è “un processo lungo e noioso con una bassa probabilità di successo”. Inoltre, molte municipalità preferirebbero evitarlo perché gli edifici industriali sono tassati meno di quelli commerciali. Anche la conversione a terziario risulterà difficoltosa, visto il ricorso ormai sistematico allo smart working che sta portando alcune grandi realtà, persino di Wall Street, a disfarsi di parte del proprio patrimonio immobiliare.
Per favorire una ripresa dei consumi, e quindi dei pagamenti degli affitti, le proprietà stanno correndo ai ripari con la creatività andando a cercare i propri locatari tra i clienti più disparati, dalle palestre ai negozi di alimentari fino ai servizi di lusso quali spa e studi di yoga. Fino ad arrivare ad acquisire loro stessi i cosiddetti anchor stores, i negozi dal maggiore richiamo, all’interno dei propri centri commerciali. Sono aumentati anche i contratti di locazione a studi medici e dentistici, nonché a coloro che hanno bisogno di spazi per stoccare la merce e accelerare le consegne degli ordini dell’ultimo miglio nelle aree urbane, generalmente operanti nell’ambito dell’e-commerce. Persino “Time” si è interessato della questione, ipotizzando che il futuro dei centri commerciali sarà la loro conversione in hub logistici.
Secondo un recente rapporto del “Wall Street Journal”, il più grande proprietario di centri commerciali negli Stati Uniti, Simon Property Group (che ha nel suo portafoglio sette dei dieci complessi più preziosi -Classe A- del Paese), sarebbe in trattative con Amazon per convertire alcuni grandi magazzini delle celebri catene Sears e JC Penney in hub di distribuzione per consegnare i pacchi. Questa soluzione può consentire agli acquirenti di ordinare e ritirare il proprio ordine direttamente sul posto, generando movimento all’interno dei centri. Quest’anno, una scuola superiore prenderà il posto di un negozio di una catena della grande distribuzione di oltre 6.000 mq nel Grand Teton Mall di Idaho Falls. Una parte del parcheggio del centro commerciale verrà convertita in area giochi e ricreativa all’aperto per quasi 600 studenti dai 6 ai 12 anni.
L’Europa e l’Italia in attesa del declino
Come spesso accade, gli Stati Uniti sono precursori di tendenze positive e negative, e quindi è solo questione di tempo prima che anche in Europa si arrivi a un veloce declino dei centri commerciali. In Italia, a inizio 2020, si contavano 955 centri commerciali e 33 outlet (dati Osservatorio Confimprese-Reno) per un totale di oltre 13 milioni di mq di superficie calpestabile. Questo sistema aveva già cominciato a scricchiolare nel 2018, con un saldo negativo tra chiusure e aperture, proseguendo poi nel 2019 con un significativo calo delle presenze. Le restrizioni portate dalla pandemia stanno facendo ormai il resto, posizionando i centri commerciali a “rischio alto” nella Tabella di riepilogo delle classi di rischio e aggregazione sociale governativa datata 2020. Di conseguenza anche l’Italia dovrà cominciare a porsi la questione del recupero e riutilizzo dei centri commerciali dismessi o sottoutilizzati.
Nella sola Lombardia si contano 30 grandi strutture di vendita sopra i 20.000 mq di superficie, tra cui avrebbe dovuto svettare già dal 2018, con circa 155.000 mq, il nuovo Westfield Milano dell’area ex Dogana di Segrate, in zona Linate. I lavori, per quello che doveva essere il centro commerciale più grande d’Europa, sono fermi da maggio 2020 e non verrà inaugurato prima del 2022. Si vocifera anche che il gruppo Westfield abbia depennato l’opera dai propri investimenti, mettendo a repentaglio anche il prolungamento della M4. Proseguono invece i lavori per il Merlata Mall, più modesto con “appena” 40.000 mq.
Immagine di copertina: il centro commerciale dismesso Oltrepo a Cigognola (Pavia; foto di Giampaolo Evangelista)
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Last modified: 2 Aprile 2021