Riceviamo e pubblichiamo una riflessione che, dalla qualità dei progetti, si allarga al ruolo della committenza pubblica, della formazione e dei concorsi
La scomparsa di Vittorio Gregotti mi ha spinto a rileggere le sue riflessioni critiche sull’architettura degli ultimi decenni, anche perché da molto tempo mi rattrista il fatto che raramente le opere moderne, anche (soprattutto?) quelle “firmate”, s’inseriscono in maniera conveniente nelle nostre belle città.
Per spiegarmi con qualche esempio, farò riferimento alla mia città, Genova. Già nel dopoguerra la ricostruzione di Piccapietra, e gli interventi di poco successivi in via Madre di Dio non hanno brillato. Più recentemente anche la zona di Brignole non è stata da meno, anzi. In tutti questi casi la speculazione l’ha fatta da padrona, con risultati abbastanza deludenti. Altre situazioni mi provocano più irritazione, forse perché penso che siano state invece causate soprattutto da provincialismo, scarso coraggio e malintesa modernità. Mi riferisco per esempio al padiglione di Jean Nouvel alla Fiera del mare (ci siamo bevuti una brutta e costosa copia di un ben più riuscito progetto realizzato a Lucerna dallo stesso autore), e sempre in fiera un esempio altrettanto brutto è quello della darsena coperta, purtroppo ben visibile da lontano, in stridente contrasto con il prospiciente dignitosissimo palasport, dove si è voluto imitare inutilmente le tensostrutture oggi di gran moda. Per rimanere all’ambito della (ex) fiera, tremo al pensiero di che cosa verrà fuori dalla progettazione del waterfront, ormai parcellizzata e ridotta a banali ristrutturazioni/lottizzazioni, priva di un disegno unitario per effetto di un autolesionistico bando di gara. Come tremo per ciò che sarà dell’ex silo Hennebique, che purtroppo sembra seguire lo stesso iter, aggravato dall’inspiegabile ritardo con cui si è elaborata la miracolistica “scheda tecnica”. Per venire alla stretta attualità, secondo me della stessa patologia soffre il nuovissimo “parco del ponte” (in copertina, un’immagine del progetto del gruppo guidato da Stefano Boeri Architetti, vincitore del concorso). Oltre alla mancanza di una complessiva idea di trasformazione dell’intera Val Polcevera, indispensabile fra l’altro per definire la modalità d’inserimento delle auspicate attività produttive, si riscontra anche in questo caso la riproposizione d’idee già utilizzate per altri contesti, che sarebbe forse il meno, ma soprattutto prevedendo costi inutili per realizzazioni inutilmente “iconiche” (rischiando fra l’altro di “oscurare” la semplicemente bella immagine del nuovo ponte disegnato da Renzo Piano), che necessiteranno di altrettanto costose manutenzioni.
Credo che sia necessario chiedersi: a che cosa è dovuto tutto ciò? Ci sono stati reiterati episodi d’incapacità, se non peggio, in seno alle nostre istituzioni? O al contrario anche a Genova si sono sentiti gli effetti di un fenomeno più generale? Io penso che sia valida piuttosto la seconda ipotesi, pur senza escludere un contributo di fattori locali. È evidente a tutti che sia ormai prevalsa la corsa all’evento mediatico, al record “estetico/tecnologico”, facilitato peraltro dai nuovi potentissimi mezzi informatici, a scapito di un attento lavoro analitico seguito da una sintesi, che deve tenere conto anche del contesto in cui l’opera si situa.
La situazione si ripercuote anche sulla formazione dei giovani architetti: per esempio a mio parere nelle scuole di architettura non s’insiste più sulla necessità di disegnare a mano, e la disponibilità di comporre troppo facilmente con il computer impedisce quasi del tutto un’adeguata maturazione del progetto. E neppure s’insiste troppo sull’inserimento delle opere nel contesto, specialmente in quello urbano, argomento che secondo me dovrebbe essere addirittura oggetto di un corso dedicato.
Ma un altro importante fattore è il comportamento delle pubbliche amministrazioni. Negli ultimi tempi si riscontra una grande difficoltà, da parte dei funzionari, a prendere decisioni coerenti con la loro competenza professionale, causata, oltre che dalle intromissioni politiche, anche dalle norme sempre più complesse e demotivanti. Anche gli amministratori sono soggetti a limitazioni: per esempio mi chiedo perché in certi casi non si possa “regalare” un edificio o un’area a chi presenti proposte di qualità per il loro utilizzo. In entrambi i casi, la preoccupazione di “mettersi in sicurezza” rispetto a critiche o possibili future imputazioni si ripercuote sulla stesura dei bandi, con una tendenza a limitare la libertà dei progettisti con prescrizioni troppo dettagliate e gli investitori con condizioni troppo onerose.
Ma più in generale la questione dei concorsi di architettura mi ha da sempre posto dei dubbi. Perché li vedo sempre più come occasione, consapevole o meno da parte delle istituzioni, di abdicare dal loro diritto/dovere di scelta, e a questo fine forse aiuta la presenza dell’architetto famoso. Inoltre, è quasi sempre inattuata una delle principali ragioni che vengono portate in favore dei concorsi stessi, cioè l’occasione di farsi conoscere da parte dei più giovani, le cui proposte purtroppo non vengono quasi mai rese pubbliche dai media. In proposito, concludo con le parole di Gregotti nel suo Contro la fine dell’architettura: «I concorsi di architettura stanno cioè diventando una tripla sciagura: per la cultura architettonica dei nostri anni che confonde “design” con progetto, creatività con inutile bizzarria, e formalismo di consumo con forma; per le amministrazioni che vedono premiati progetti stupidamente stravaganti che costano in genere dalle due alle quattro volte i preventivi; infine concorsi che non servono neanche sul piano corporativo a dare lavoro ai giovani».
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concorsi , genova , lettere al Giornale
Last modified: 3 Aprile 2020