L’effetto Greta, sempre più pervasivo e impattante a livello mediatico, occupa vasti campi della disciplina del progetto, e quindi della sua pubblicistica
I recenti scioperi per il clima hanno riportato sulle prime pagine di giornali e telegiornali il tema del climate change e, di conseguenza, dei possibili strumenti per affrontare l’emergenza, a livello sia locale che globale. I fenomeni delle ondate di calore (heat waves), di freddo (cool waves) o delle cosiddette bombe d’acqua, danno ulteriore prova della fragilità delle nostre città dal punto di vista fisico, ambientale e sociale: i fenomeni climatici intensi impattano tanto su servizi quanto su strutture fisiche e fanno emergere la “fatica” degli ambienti urbani nel rispondere adeguatamente a questi shock improvvisi. In questo gli edifici hanno un ruolo determinante, come causa ma anche come possibile soluzione: la loro generale scarsa efficienza energetica comporta infatti costi elevati, oltre che condizioni frequenti di discomfort.
L’ormai consapevole necessità di costruire in maniera totalmente diversa rispetto al passato sta producendo un’ampia e sempre più interessante pubblicistica. Tra le pubblicazioni più recenti c’è Urban Fuel Poverty, edito dalla prestigiosa casa editrice olandese Elsevier (pubblicazione con cuore italiano, essendo nata tra le braccia dell’Università di Bologna, Dipartimento di Architettura) che focalizza l’attenzione sulla povertà energetica in ambito urbano. Il libro, curato dal docente dell’ateneo bolognese Kristian Fabbri, raccoglie gli apporti scientifici multidisciplinari di 15 autori, prevalentemente di provenienza nazionale, distribuiti in 3 parti e 10 capitoli. Tutti orientati a discutere in maniera approfondita il concetto di fuel poverty, la cui prima definizione proposta è quella coniata da Brenda Boardman (Università di Oxford) e adottata dal governo inglese: «La condizione di chi spende più del 10% del proprio reddito per le bollette energetiche». La pubblicazione si propone di definire e misurare, in maniera oggettiva, la portata del fenomeno, proponendo una soglia che definisca il rischio di povertà energetica assoluta, e non relativa, come nel caso della percentuale di spesa sul reddito definita in precedenza. Un tema evidentemente complesso, da affrontare, secondo gli autori, con un mix d’interventi di tipo politico e tecnologico e attraverso programmi da attuarsi soprattutto nell’edilizia sociale. Proprio gli abitanti di residenze di edilizia pubblica, spesso carenti in termini energetici, sembrano infatti le categorie più esposte al rischio di fuel poverty.
Ma sempre dall’Inghilterra, in tema di social housing, arriva una notizia a suo modo epocale. Per la prima volta dalla fondazione, nel 1996, il prestigioso RIBA Stirling Prize è stato assegnato a Goldsmith Street: un complesso di circa cento abitazioni commissionate dal City Council della città di Norwich [nella foto di copertina, © Tim Crocker/RIBA]. Disposte su quattro file e intervallate da spazi pubblici e cortili a servizio degli alloggi, sono firmate dallo studio londinese di Mikhail Riches e Cathy Hawley e hanno ottenuto la certificazione tedesca Passivhaus, che significa una riduzione di circa il 70% della bolletta energetica per gli utenti (si è calcolato che per il riscaldamento la spesa annua si dovrebbe aggirare sulle 150 sterline, pari a circa 170 euro). Le abitazioni presentano finestrature piuttosto ampie, facciate in mattone chiaro e tetti asimmetrici di colore scuro, le cui pendenze sono definite in base all’inclinazione del sole in inverno, per massimizzare gli apporti solari gratuiti e la luce naturale. Un progetto quindi che si colloca sia nel solco della tradizione costruttiva locale (l’uso del mattone, la serialità delle cortine, le altezze di poco superiori a quelle esistenti), che in quello del costruire contemporaneo (i brise soleil metallici, l’impiantistica altamente efficiente con ventilazione meccanica e recuperatori di calore, le colorazioni accese delle porte d’ingresso agli alloggi).
Affronta invece il tema energetico e ambientale con una diversa, e per certi versi sorprendente, angolazione, il testo di un architetto olandese, Thomas Rau, scritto insieme a Sabine Oberhuber: Material Matters, il titolo-slogan in inglese mantenuto dall’edizione originale (2016) nella traduzione italiana pubblicata da Edizioni Ambiente con il sottotitolo L’importanza della materia. Il quinto dei nove capitoli (Se cambiano le regole del gioco) sintetizza lo sfondo (l’economia circolare, il riuso, il recupero), racconta alcuni casi paradigmatici e mette al centro i materiali edilizi non più intesi come rifiuti da smaltire alla fine del proprio ciclo di vita, ma invece come risorse da rimettere in gioco. Almeno due concetti colpiscono per la loro portata innovativa. L’urban mining è «un approccio che considera le città o le altre aree densamente popolate come miniere in cui si trovano gigantesche riserve di materie prime, che possono, almeno in parte, venire recuperate». Questa interpretazione sfocia nell’esigenza di coniare un neologismo – il “matasto” nella traduzione italiana (madaster nell’originale olandese, crasi di “materiali” e “catasto”) – che in un futuro non troppo lontano potrebbe mappare on line tutti i materiali riducendo al minimo lo spreco. Anche così si combatte la fuel poverty.
Urban Fuel Poverty, a cura di Kristian Fabbri, Elsevier, 2019, 288 pagine, testo in inglese, € 113,36
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MATERIAL MATTERS. L’importanza della materia. Un’alternativa al sovrasfruttamento, di Thomas Rau e Sabine Oberhuber, Edizioni Ambiente, 2019, 224 pagine, € 22
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libri , social housing , territorio fragile
Last modified: 6 Novembre 2019