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Michela MorganteWritten by: Città e Territorio

Il bunker di Affi, patata bollente ereditata dalla Guerra fredda

Il bunker di Affi, patata bollente ereditata dalla Guerra fredda

Molte ipotesi e ancora poche certezze per la faticosa riqualificazione della struttura NATO in provincia di Verona

 

AFFI (VERONA). Affi è un centro di 2.000 abitanti, lungo l’Autobrennero. Un trafficato snodo commerciale, dominato da una serie di aerogeneratori alti 80 m allo sbocco della Val d’Adige. Da qui transitano, spesso senza fermarsi, più di 8 milioni di automobilisti l’anno, diretti al Garda e ai parchi tematici delle vicinanze. Perché il paese, in sé, non presenta particolari attrattive. Anzi, il contesto low profile deve aver contribuito a mantenervi in segreto una vasta installazione della NATO, scavata in roccia nel monte adiacente, in funzione dal 1966 al 2004nome in codice West Star. La base è stata per lungo tempo nota ai soli locali, che intessevano miti su presunte testate nucleari. Come in un romanzo cult della serie “Urania”, Livello Sette, del 1960, dove i quadri scelti dello Stato maggiore USA sono destinati ad un claustrofobico microcosmo sotterraneo per sopravvivere all’apocalisse nucleare, così anche la struttura ipogea di Affi avrebbe dovuto preservare dal fall-out centinaia di membri degli alti comandi militari, in caso di attacco sovietico. Dalla War room, nodo di un centro trasmissioni strategico, sarebbero state coordinate le operazioni di difesa dei nostri confini nord-orientali – i più esposti ad un’ipotetica invasione dalla cosiddetta “soglia di Gorizia”. Faceva da pendent per la difesa del Nord-Europa un altro bunker tra Belgio e Francia, nel cuore del Mont Kemmel, dal 2007 trasformato in Museo della Guerra fredda.

Anche ad Affi, tramontate altre ipotesi di riuso (albergo a 5 stelle, casinò, Centro di ricerca sulle fonti alternative), si vuole puntare sulla valorizzazione turistico-culturale, dopo che la base è passata dal 2018 all’ente locale. La cessione, gratuita, è nata nell’ambito del cosiddetto “federalismo demaniale”, voluto per rilanciare beni sotto-utilizzati su progetto degli enti interessati, e il Comune, finalmente proprietario, ha elaborato un programma pragmaticamente graduato in fasi.

Una prima fase transitoria, di un paio d’anni, sarà dedicata alla messa in sicurezza, al ripristino impiantistico, ad eventuali bonifiche da inquinanti. Interventi non banali, su un labirinto di spazi interrati a meno 150 m, per un totale di circa 13.000 mq, cui si accede da un 1 km di tunnel attraverso la montagna. Garantendo un minimo di servizi ai visitatori si dovrebbe avviare un’attività di visite guidate a stretto giro, sulla scorta di esperienze come il “Percorso della memoria” nelle Gallerie del Monte Soratte.

La seconda fase prevede invece negli anni a venire la creazione di una vera e propria struttura museale, di moderna concezione, impegno evidentemente di tutt’altra scala. Il pool degli investitori non è ancora del tutto chiaro. Nel processo sono stati finora attivati l’Ordine degli Architetti di Verona (che orchestrerà un grande concorso di progettazione) e le Facoltà di architettura limitrofe (la sede bresciana di Ingegneria civile terrà in settembre una summer school sulla rifunzionalizzazione del bunker).

Dunque è lecito sognare qualcosa di più del solito museo militare, plasmato sulla narrazione dominante, cioè quella della Seconda guerra mondiale, con i manichini in uniforme e le armi d’epoca nelle vetrine? Questa linea più tradizionale, adottata a Base tuono a Folgaria (Trento), non sembra premiata, in termini di flussi di visitatori. I musei di guerra sono profondamente cambiati, come dimostra il bel Museo del Vallo Atlantico, firmato da Bjarke Ingels Group e nascosto tra le dune dello Jutland occidentale, in Danimarca. Qui il bunker è fulcro di un’opera quasi di land-art, di altissimo profilo formale, al cui interno si scatena una fantasmagoria di suoni e proiezioni disegnata dagli olandesi Tinker Imagineers. La valorizzazione di quello che viene chiamato “new heritage” non può che percorrere strade simili, ricreare il clima di attesa e tensione di un’epoca, giocare sugli immaginari collettivi al di qua del Muro. Le potenzialità comunicative dell’architettura, l’accelerazione ludica delle recenti pratiche allestitive “esperienziali” possono molto nel valorizzare il tema storiografico della Guerra fredda nel suo specifico. Una guerra lungamente attesa e mai arrivata.

 

Autore

  • Michela Morgante

    Architetta, dottore di ricerca in Urbanistica, si occupa di storia urbana contemporanea. Ha insegnato “Storia della città e del territorio” e “Storia del paesaggio italiano” presso Conservazione dei Beni Culturali a Ravenna. Tra i temi indagati, in saggi su riviste e monografie: la tutela storico-artistica nella pianificazione delle città italiane tra Otto e Novecento, le dinamiche edilizie della ricostruzione post-bellica, l’infrastrutturazione del territorio per il governo delle acque, le politiche territoriali di area vasta. Le pubblicazioni più recenti riguardano la rappresentazione delle città d’arte italiane bombardate durante la Seconda guerra mondiale, in chiave di propaganda. Collabora con "Il Giornale dell'Architettura" dal 2004

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Last modified: 5 Luglio 2019