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Cristina DonatiWritten by: Interviste

Dalla Terrazza Triennale al fare l’architetto oggi: un dialogo con Paolo Brescia

Dalla Terrazza Triennale al fare l’architetto oggi: un dialogo con Paolo Brescia

Il fondatore di OBR con Tommaso Principi parla di come è nato il progetto milanese, del loro approccio alla progettazione e di cosa vuole dire essere architetti oggi, facendo il punto sui molti lavori dello studio

 

La pubblicazione della prima monografia dell’indagine “Radiografia del contemporaeo” diventa l’occasione per un dialogo che si costruisce a partire dal progetto realizzato con Capoferri Serramenti sul tetto del Palazzo della Triennale di Milano.

scarica la monografia

 

Com’è nato il progetto per la Triennale?

Durante il sopralluogo del concorso, siamo stati impressionati dall’effetto sorpresa che si ha dalla copertura del Palazzo dell’Arte. Quella terrazza, infatti, era sempre stata chiusa al pubblico e, benché fossimo assidui frequentatori della Triennale fin da studenti del Politecnico, nessuno di noi ne conosceva l’esistenza. La vista era sorprendente, si aveva la sensazione di essere al centro di tutto.

Il nostro desiderio è stato dunque quello di restituire questa nuova centralità ai Milanesi, facendo di questa terrazza un luogo super-pubblico vissuto da tutti, un salotto urbano per tutti sospeso sul Parco Sempione, sul Castello Sforzesco e sul nuovo skyline di Milano.

Però ammetto che subivamo anche un’altra sensazione: quella di essere come dei nani sulle spalle di un gigante. Non c’era nulla da inventare, c’era già tutto. Volevamo quasi sentirci piccoli, scomparire, essere il meno evidenti possibile, in punta di piedi. Eppure non intendevamo mimetizzarci, bensì delineare un intervento che fosse “già lì da sempre”.

Così abbiamo pensato a un padiglione vetrato come una serra sospesa sul parco, arretrata rispetto al perimetro dell’edificio storico di Muzio, pur recuperandone il passo strutturale.

 

Come affrontate il tema del costruire sul costruito?

Credo che costruire sul costruito imponga un cambio di paradigma. In genere si pensa che il costruire sia finalizzato alla costruzione, e che il costruire e il costruito stiano tra loro come il fine e il mezzo. In realtà credo che lo schema fine/mezzo ci precluda l’accesso ai rapporti essenziali tra costruire e costruito.

È chiaro che, dovendo azzerare l’ulteriore consumo di suolo e favorire interventi che rivalutino ciò che abbiamo ricevuto, il costruire e il costruito debbano assumere un nuovo significato contemporaneo all’interno di una visione unitaria. L’opera, infatti, non è la somma delle sue parti, essa è un tutto.

Nel costruire sul costruito non c’è “stile”, non c’è differenza tra logica espressiva e logica costruttiva. L’architettura è poietica, nel senso classico del saper fare (bene). Il tecnico sa il come. L’architetto deve domandarsi anche il perché.

Sono convinto che costruire sul costruito possa produrre una nuova bellezza, che celebrerà il lavoro di chi è venuto prima di noi e la vita di chi ha abitato prima di noi, prolungando in un certo senso la loro vita. Ciò sarà possibile se l’architetto, come un antico greco, saprà tenere insieme teoria e pratica, fare e pensare, ragione e sentimento.

 

Qual è la vostra idea di bellezza in architettura?

È difficile parlare della bellezza. Non se ne parla per pudore. La cerchiamo, la inseguiamo, ma in realtà non so bene cosa sia esattamente. Quello che ho capito è che come l’Araba Fenice, è inafferrabile. Quando pensi di averla trovata, ti è già sfuggita.

So che non c’è un’unica bellezza, ma tante bellezze. Nei Memorabilia di Senofonte, Socrate diceva che un uomo bello alla corsa è dissimile da un uomo bello alla lotta, così come uno scudo bello alla difesa è dissimile da un dardo bello al lancio. Tutte le cose sono belle in relazione a ciò a cui sono state pensate. Quel che è buono alla corsa è cattivo alla lotta e viceversa. Quindi rispetto ad uno scopo, una certa cosa può essere bella e buona (kalòs kai agathòs), oppure brutta e cattiva.

Ma la bellezza è anche tutto il contrario di tutto. Nel frontone occidentale del tempio di Delfi i quattro motti della bellezza greca (il più giusto è il più bello, osserva il limite, odia la tracotanza, nulla in eccesso) fondati su ordine e armonia sotto la protezione di Apollo trovano il loro contraltare nel frontone orientale, in cui Dionisio, dio del caos, infrange ogni regola. Questa compresenza di due divinità antitetiche non è casuale, è l’irruzione del caos nell’armonia, della bellezza dionisiaca in quella apollinea.

Oggi diremmo che la bellezza è soprattutto un valore. Un valore che viene da lontano, ma che ci proietta verso il futuro; è un valore che ha tempi lunghi, che tiene insieme le persone che ne sono illuminate.

In architettura la bellezza assume un significato ancora più corale; non è roba da architetti, è di tutti, così come un edificio, anche se privato, è comunque un fatto pubblico, non è come un libro che puoi decidere di non leggere. Nella Polis la bellezza è anche responsabilità: “vi prometto che vi restituirò Atene ancora più bella”. Bello e buono coincidono. Se non è buono, non è neanche bello.

In architettura la bellezza è anche attuale, perché è parsimonia, diversità, complessità. Ma dobbiamo stare attenti a non cadere nei luoghi comuni della demagogia o negli abusi della retorica, altrimenti la bellezza si trasforma in semplice “concetto passe-partout” che, in quanto vano dispositivo buonista, blocca il pensiero in superficie facendo svanire la magia, proprio come avviene con l’Araba Fenice.

 

Nel vostro caso, il costruire sul costruito che tipo di rapporto implica tra contesto e opera?

Penso che la verità dell’opera stia nelle sue condizioni contingenti. Non esiste una verità a-priori. Essa si “costruisce” dalle contingenze dell’opera, non è mai una verità “applicata”.

Ma, se è vero che la verità dell’opera è a partire dalle sue contingenze, è anche vero che è l’architettura dell’opera che fa il luogo. Credo, infatti, che ad un certo punto l’opera diventi una sorta di “memoria di un futuro assoluto”, con una vita propria, al di là del tempo che sopravvive alle sue funzioni.

È tra la verità contingente e la memoria di un futuro assoluto che inseguiamo l’idea di un’architettura che sia “già lì da sempre”, che entra nel mondo diventando ciò che è, sovrapponendo il presente con il passato e il futuro.

 

Vi siete formati come collettivo. Qual è il vostro approccio al progetto?

Quando abbiamo fondato OBR, volevamo esprimere qualcosa che sintetizzasse la “libera ricerca sul costruire” e al tempo stesso emanciparci dalla classica impostazione di studio professionale gerarchico.

Da noi in OBR tutti sono ugualmente coinvolti nel processo progettuale. Lavorando sempre su temi differenti, abbiamo imparato a coinvolgere chi ne sa più di noi, condividendo la stessa visione. La scelta iniziale di non specializzarci in nulla di particolare ci consente di ibridare saperi diversi acquisiti in esperienze diverse.

Il design non è l’obiettivo, ma il risultato. In questo modo gli esiti saranno superiori alle aspettative iniziali. Il progetto non è un fatto individuale, è una common task. È chiaro che all’inizio del processo non la pensiamo tutti esattamente allo stesso modo, ma discutiamo, spesso anche animatamente. A distanza di tempo devo dire che è proprio il dialogo – soprattutto l’ascolto reciproco – la linfa vitale del processo progettuale.

Lavorando insieme in OBR, stiamo convergendo verso un’idea di progetto come processo collettivo, cooperativo, evolutivo, che si sviluppa mettendosi in gioco, prendendosi dei rischi, anche facendo degli errori, ma pur sempre esplorando il futuro e indagando l’ignoto, che poi è l’unica meta verso cui andare, se dobbiamo andare da qualche parte.

 

Cosa vuol dire per voi essere architetti oggi?

Come dice Paul Virilio, oggi viviamo in un mondo che è diventato un mondo-città, all’interno del quale circolano informazioni, messaggi, immagini, cose e persone… Ma è anche vero che la città oggi è sempre più una città-mondo, con le proprie differenze etniche, culturali e sociali (smentendo in un certo senso le illusioni del mondo-città).

È su questo terreno incerto, sospeso tra città e mondo, che pensiamo all’architettura oggi, intesa come spirito del nostro tempo, come specchio della nostra realtà. Ora, essendo questa in continuo mutamento, credo che come architetti siamo chiamati a manifestarne il divenire.

 

La ricerca di OBR è sempre stata tesa verso l’indagine dei nuovi modi dell’abitare contemporaneo. Che rapporta ha per voi il costruire rispetto all’abitare?

Il costruire ha in sé il saper abitare, che a sua volta implica un senso dell’aver cura (Heidegger parlava di “Quadratura” dell’abitare, intesa come “salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali”). Solo se sappiamo abitare, allora possiamo costruire, quindi il costruire è sempre a partire dall’abitare.

Del resto, però, è anche vero che è come viviamo che determina il nostro abitare, non viceversa.

Quindi la domanda è: se l’architettura ha a che fare con il costruire, e se il costruire presuppone il saper abitare che è determinato dal nostro vivere, allora che contributo può dare l’architettura alla vita di coloro che abitano gli spazi che costruiamo?

Non so se con l’architettura cambieremo il mondo, ma credo che, inseguendo l’idea di bellezza come valore comune, di tutti, per tutti, allora possiamo fare qualcosa per migliorarlo.

 

Su cosa state lavorando?

Al momento siamo impegnati negli Emirati, in Italia e in India.

A Dubai stiamo seguendo il progetto dello sviluppo della zona di Jafza, di fronte a Dubai Expo 2020. Si tratta di un centro multifunzionale che si estende per 3 km lungo la high way verso Abu Dhabi. Lo stiamo immaginando come un luogo super-urbano, che favorisca l’incontro, lo scambio e la scoperta inattesa di qualcosa che non si sta propriamente cercando, che poi è la caratteristica essenziale dello spazio pubblico. Per questo motivo abbiamo pensato ad una promenade all’aperto ma coperta, che ha come riferimento il Suq, illuminata naturalmente e articolata in una serie di piazze interne su più livelli che consentono diverse modalità di mobilità alternative in continuità con l’Expo 2020. Vorremmo dimostrare che anche a Dubai è possibile estendere alcune attività aggregative outdoor, non più importando modelli da altrove, ma grazie all’evoluzione di tipologie locali (come appunto il Suq) reinterpretate in chiave site specific e contemporanea.

In Italia stiamo lavorando prevalentemente sul tema del “costruire sul costruito”, come per il complesso per uffici di Generali in Via Bassi a Milano dove recuperiamo le strutture di un precedente complesso, per il Museo di Mitoraj a Pietrasanta che progettiamo all’interno di un mercato comunale dismesso, per il riuso dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Genova per CDP ripensato con nuove funzioni aperte alla città, per il porto e soprattutto il retro-porto di Santa Margherita Ligure che diventeranno un nuovo fronte della città sul mare, per il complesso di Marina Grande ad Arenzano dove ri-naturalizziamo il vecchio tunnel della ferrovia, e infine per Prato, dove insieme a Michel Desvigne stiamo realizzando il Parco Centrale all’interno delle mura storiche sul sedime di un vecchio ospedale dismesso.

In India stiamo realizzando il cluster Lehariya a Jaipur con laboratori, art galleries, retail e hotel. In mancanza di una vera e propria industria dell’edilizia (come avviene per esempio in Cina), la nostra intenzione è dimostrare che è possibile sviluppare un progetto di real estate con un alto grado di sostenibilità sociale, mediante la valorizzazione delle maestranze locali, contribuendo in questo modo allo sviluppo economico e culturale del territorio. Insieme a Human Projects dell’attivista Rajeev Lunkad e lavorando con gli artigiani e gli artisti locali, abbiamo cercato di operare una trasposizione dalla piccola scala dell’art and craft alla grande scala dell’architettura, combinando la progettazione parametrica di OBR con la tecnologia costruttiva basilare locale. In questo caso, l’approccio è quello della Multiplicity, intesa come ripetizione (artigianale), e non come moltiplicazione (industriale). L’obiettivo che stiamo perseguendo in India non è un progetto for India, ma by India.

 

Leggi l’intervista in lingua inglese

 

 

Autore

  • Cristina Donati

    Prima collaboratrice poi redattrice della testata online fin dagli esordi nel 2014. Prematuramente scomparsa nel 2021. Studia architettura a Firenze dove consegue un Dottorato di ricerca in storia dell’architettura. Dopo la laurea si trasferisce a Oxford dove collabora con studi professionali, si occupa di editoria e cura mostre per Istituti di cultura a Londra. Ha svolto attività didattica per la Kent State University (USA) con il corso di Theories of Architetcure. Scrive per numerose riviste internazionali e svolge attività di ricerca sull’architettura contemporanea e i suoi protagonisti. Dirige la collana editoriale «Single» sul progetto contemporaneo per la Casa Editrice Altralinea. E' autrice di saggi e monografie tra cui: «Michael Hopkins» (Skira, 2006); «L’innovazione tecnologica dalla ricerca alla realizzazione» (Electa, 2008); «RSH+P, Compact City» (Electa, 2014); «Holistic Bank Design» (Altralinea, 2015).

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Last modified: 3 Aprile 2019