Un incontro in occasione della recente mostra al Museo del Novecento di Firenze per parlare di professione e valore del progetto: il “grado zero” dell’architettura riparte da qui
A Firenze, in occasione della mostra che si è tenuta al Museo del Novecento, abbiamo incontrato Gianluca Peluffo per parlare di rifondazione a più livelli. La rifondazione personale, dopo le fine del sodalizio con 5+1AA (il 28 luglio 2017); la rifondazione di un’architettura contemporanea in Italia; la rifondazione della professione e del valore del progetto. La mostra, evocativa di un’architettura esistenzialista ed emozionale, espone tre progetti; presenta cioè la visione dell’architetto e gli strumenti del suo pensiero in divenire. L’allestimento non è più un atto di compiacimento di un esito finale ma un frammento di cultura dinamica che trasforma l’architettura in un percorso di dialoghi. Del senso di questi dialoghi, -con la terra, con la materia, con il contesto- interroghiamo Peluffo.
La mostra ha presentato in modo raffinato la ricerca progettuale piuttosto che compiacersi esclusivamente di scatti fotografici dell’esito finale. Che cosa è per Lei l’atto di progettare?
Innanzitutto credo che la fase progettuale sia un evento magmatico, contraddittorio e complesso, che non procede per sequenze precise di azioni e decisioni. E lo dico da architetto che ha avuto la fortuna di costruire molto e molti dei suoi sogni, vivendo moltissimo in cantiere e sul tavolo da disegno, con la matita in mano, spessa e grassa. Mi è capitato molto spesso di “progettare” in cantiere, disegnando sui muri o sui disegni tecnici stampati e stropicciati. Così come il sogno, il ricordo, sono luoghi non solo mentali, ma reali del progetto. Tracciare ripetutamente su fogli di velina, tracciati, allineamenti urbani, linee di movimento e percezione, o plasticare i modelli in terra, così come faccio da anni nella mia Albisola con l’aiuto dell’artista e ceramista Danilo Trogu, sono azioni fisiche, sensuali e faticose, lente e misteriose, quasi sciamaniche, alla ricerca dell’anima del progetto. Trovarla, scovarla, è un regalo improvviso, del quale dobbiamo essere meritevoli successivamente, attraverso lo studio, l’umiltà e la fratellanza per tutti gli attori del processo costruttivo. Dai colleghi ai muratori. Progettare è praticare con assoluta e fragile fedeltà una religione laica di fratellanza. Rileggo spesso Il canto delle pietre. Dialogo di un monaco costruttore di Fernand Pouillon, l’amato “anti-Le Corbusier”. Lo consiglio davvero agli studenti, ai giovani architetti; con l’Autobiografia scientifica di Aldo Rossi costituisce l’accoppiata irrinunciabile di una “educazione sentimentale” al mestiere dell’architetto: sangue, fatica, ossa, pietre, colore, ricordo, ossessione, studio, ascolto, atto di vedere, fiducia, coraggio, amore, corporeità, tempo, verità.
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Il monte Galala, la sua nuova Moschea e il Museo della Battaglia di El Alamein sono i tre progetti che state realizzando in Egitto e che avete portato in mostra a Firenze. Sono progetti a diverse scale, da quella urbana del Galala a quella più architettonica del Museo e della Moschea. La difficoltà progettuale non è però legata alla scala dei progetti ma alla ricerca di un linguaggio che interpreti la cultura locale e l’identità contemporanea globale. Lei parla di un’architettura del futuro «caratterizzata da uno “stralinguaggio” , oltre l’Eclettismo». Può spiegarci meglio a cosa sta pensando?
Io credo profondamente nell’intersoggettività; ho cioè la ferma convinzione che la vita degli uomini inizi ed abbia un senso solo nella relazione con l’altro. In questa relazione il linguaggio è chiaramente l’invenzione primaria, infantile, essenziale e, soprattutto, significante. L’architettura è un corpo fisico e materico che dialoga e parla attraverso il proprio linguaggio. La sua corporeità e la sua propensione alla sensualità e al dialogo implicano una capacità di definire, inventare un linguaggio specifico per ogni condizione. Stralinguaggio è proprio quell’invenzione che sia capace di includere e sintetizzare l’enorme quantità di informazioni da cui siamo sommersi in ogni specifica condizione. Quest’azione inclusiva, sintetica e creativa garantisce le condizioni dell’incontro fra l’individuo e la collettività, che è l’azione fondativa dell’architettura, allo scopo di rendere felici gli esseri umani. Di certo il tempo, la storia, la memoria, i volti, i paesaggi, le città, le loro pietre, entrano in questo “Stralinguaggio” inclusivo. Accogliente ma selettivo. È l’opposto dell’Ecclettismo: accoglie la molteplicità ma non rende visibili i singoli elementi che la compongono. Non strizza l’occhio, ma al contrario canta, piange o urla.
Quali sono le principali criticità/peculiarità del lavorare in Egitto?
Ogni luogo è straordinariamente unico, ancora di più se la sua storia è stratificata e fatta di incredibili accelerazioni e lunghissimi rallentamenti. In Egitto, per chi progetta, c’è la straordinaria sfida di inventare un linguaggio che risponda al bisogno istintivo e commerciale di “internazionalità” trasformandolo in “contemporaneità”, con i suoi misteri e i suoi angoli bui. Questa è la missione e la sfida che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Difficilissima e irrinunciabile: non essere servi dell’internazionalità dello stile, ma inventori liberi a umili: saper ascoltare, saper vedere, saper proporre e spiazzare. Trasparente non è internazionale, è volgare, disegnare la pelle di un edificio e non il suo dialogo con la realtà non è internazionale, è ridicolo.
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Qual è secondo Lei il principale salto epocale tra l’architettura del Movimento moderno e quella della contemporaneità del terzo millennio?
Il Movimento moderno è stato il libretto di un’opera tragica e criminale. Il puritanesimo calvinista nemico della collettività, del corpo, della sensualità e del piacere ha causato una degradante svendita dello spazio pubblico, dello spazio dell’incontro fra singolo e collettività, un appiattimento volgare del linguaggio. Il MovimentomModerno era fondato su un lungo percorso di invenzioni tecnologiche, dal cemento armato, alle strutture in acciaio, al curtain wall. Da decenni non esistono invenzioni tecnologiche davvero rivoluzionarie capaci di determinare un linguaggio. Questo è il grande salto epocale da accettare: smettere di cercare e attendere invenzioni tecnologiche capaci di determinare il significato dell’architettura. Oggi la grande sfida è la pratica specifica e creativa del futuro, senza moralismi ma con etica ed estetica dialoganti e il ritorno alla creazione di spazi fisici di “fusione degli orizzonti”.
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La globalizzazione con le sue nuove logiche economiche ed i suoi nuovi patroni è un vantaggio per gli architetti e l’architettura o uno svantaggio?
La globalizzazione è il nome di battesimo più o meno recente del colonialismo culturale e finanziario. Se praticata come strumento di controllo e sfruttamento, e non come progresso collettivo, è evidentemente nemica sia delle realtà locali che degli esseri umani in senso globale. Per questo non può che essere ostile e nemica dell’architettura: là dove si tende a unificare e appiattire percezioni, letture e risposte, là sta il male. Prendete GoogleMap: ogni luogo è uguale, pianificato e deformato attraverso la percezione fino a diventare identico. Una guerra contro la conoscenza e la verità attuata attraverso la tecnologia, il bombardamento fotografico dall’alto o il fisheye: appiattimento e deformazione per nascondere la realtà e unificare le risposte. Economiche, politiche e formali.
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Il sodalizio professionale con 5+1AA ha avuto il suo corso. Posso chiederLe cosa rimpiange e cosa invece valuta come arricchimento da questa importante esperienza professionale?
È stata una grande avventura, basata sulla fratellanza fra un gruppo di sei persone, con diverse ambizioni e talenti. Volevamo dimostrare che fare il mestiere dell’architetto in Italia non era elitario e per pochi. Per questo siamo stati da subito combattuti e boicottati dal sistema “culturale” italiano, mediocre e conformista. Pensate che una Rivista come “Domus” ha pubblicato il nostro lavoro solo quando ha avuto un direttore straniero, oppure “Casabella” non l’ha mai fatto. Ma non era e non è importante, sono solo esempi. Ma finché siamo riusciti a navigare sott’acqua e a emergere talvolta, abbiamo vinto molte battaglie. Moltissime. In Italia alzare la testa vuol dire vestire il costume dell’orso al Luna Park: le pallottole, benché metaforiche, possono uccidere o avvelenare anche fratellanze che potevano sembrare indistruttibili. I 23 anni di vita di cantiere e di tavolo da progetto sono stati un regalo che la fortuna ci ha fatto, e fare centinaia di conferenze negli anni è stato meraviglioso per poter mostrare ai giovani colleghi e studenti che era possibile fare, costruire in Italia e all’estero. Abbiamo meritato quella fortuna praticando umiltà e fratellanza. Quando queste qualità sono venute meno fra noi, è venuto meno il senso profondo del lavoro insieme.
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Si parla di una Legge sull’architettura. Lei pensa che la qualità dell’architettura in Italia si possa elevare con una legge dedicata?
Assolutamente sì. È una condizione necessaria e quasi sufficiente: l’obbligo del concorso in due fasi, la giusta remunerazione del lavoro, farebbero crescere nell’esperienza e nell’emulazione, e non nel cinismo e nell’invidia della frustrazione, le giovani generazioni non solo di progettisti ma anche di dirigenti pubblici. L’architettura è pubblica, sempre, ed è atto laico di fede nello Stato, nello spazio fisico e simbolico della comunità, e quindi devono essere le istituzioni a dare l’esempio e la guida attraverso una legge dedicata, che deve essere praticata e rispettata in ogni fase del processo decisionale, progettuale e costruttivo. La nostra umiliante e professionalmente tragica esperienza del Palazzo del cinema di Venezia, condivisa con Rudy Ricciotti, che da francese non poteva comprendere alcuno dei passaggi imbarazzanti della vicenda, ci ha fatto vivere l’isolamento e la lontananza, se non il tradimento delle istituzioni, dei colleghi e del mondo culturale e comunicativo. Una legge sistematica garante del processo migliorerebbe anche l’humus professionale e culturale dell’architettura italiana, in modo lento e inesorabile. E sappiamo bene di quanto ce ne sarebbe bisogno.
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Chi sono GianlucaPeluffo&Partners?
GianlucaPeluffo&Partners nasce nell’estate del 2017 ad Albissola Marina (Savona), cittadina della Riviera ligure di ponente, nello studio che fu di Lucio Fontana. Il suo fondatore Gianluca Peluffo si è affermato nel panorama internazionale dell’architettura per la sua attività creativa e di costruzione architettonica svolta a partire dal 1995 all’interno dello studio 5+1AA, di cui è stato co‐fondatore subito dopo la laurea in Architettura conseguita presso l’Università di Genova. In oltre vent’anni di sodalizio professionale, 5+1AA ha lasciato segni distintivi dei loro progetti e interventi nel paesaggio urbano di città come Milano, Roma, Venezia, Firenze, Genova, Savona, Palermo, Tangeri, Algeri, Istanbul, Marsiglia e Il Cairo. La brillantezza, il rigore e l’originalità di quest’attività hanno fruttato numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio europeo all’architettura Philippe Rotthier, il The Chicago Athenaeum Award, l’AIT Awards, il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia (per il nuovo Palazzo del cinema), il LEAF Award, l’ULI Global Award for Excellence, il Ceramics of Italy e il The Plan Award.
Peluffo è Benemerito delle Arti del Ministero dei Beni Culturali.