Il commento di Carlo Olmo, storico dell’architettura e fondatore della testata, al Leone d’oro alla carriera conferito dalla Biennale di Venezia al collega inglese Kenneth Frampton
Al di là di suoi libri, in primis Modern Architecture: A Critical HIstory (1980), il Leone d’oro alla carriera a Kenneth Frampton giunge in un momento molto particolare della storiografia del moderno e premia una delle ultime figure che incarnano due aspetti oggi quasi in estinzione, purtroppo non senza conseguenze per la stessa architettura. Il primo è la figura dell’intellettuale militante, quello che Michael Walzer mette al centro del suo libro The Company of Critics (1988). Quell’intellettuale che in diversi contesti e periodi storici, senza un debito diretto con un’ideologia, assume un principio di responsabilità a base della sua riflessione storiografica e fa della critica lo strumento per far prendere posizione a scuole, riviste, milieu sociali e politici. Come alcuni personaggi dei libri di Walzer, in particolare Simone de Beauvoir e Albert Camus, nella sua lunga vita di docente e scrittore Frampton ha esercitato una militanza che non poteva prescindere dall’educazione alla critica, da una quasi ossessiva ricerca di connessioni tra le antropologie dei protagonisti delle sue storie e la storia delle idee con cui essi si misuravano. Un educatore quasi per vocazione che milita per un’idea critica della modernità, Frampton in questo fa pensare molto ad un grande esule, oggi troppo spesso dimenticato, che abitava la sua stessa New York: Karl Lowith.
Ma Frampton milita anche in un mondo che ha fatto dell’utilitas una forma, molto diversamente declinata, di condivisione per idee, passioni, scelte distributive e formali. E lo fa in un momento in cui, un altro grande inglese, David Watkin, scatena il peggiore degli anatemi su quella forma d’impegno, nel suo Morality and Architecture (1977). Non solo, ma in un momento in cui il relativismo ermeneutico, soprattutto negli Stati Uniti, stava prendendo sempre più posizione, sulle tracce a volte mal ricalcate del pensiero, in particolare, di Jacques Derrida.
Se si riprendono oggi in mano i dieci studi che compongono Studies in Tectonic Culture (1995) e li si contestualizza, lo sforzo che Frampton fa di ricercare nel pensiero costruttivo – che non è solo quello scientifico che origina da Monge e neanche quello quasi organicista che si materializza pienamente con il Joseph Paxton delle serre di Kew Gardens – la risposta a una lettura riduzionista dell’architettura (comunque formalista, anche nelle sue estenuate versioni di oggi), pone al centro della riflessione storiografica il nodo di una poetica della costruzione come origine e soluzione di ciò che l’ultimo Le Corbusier visse quasi tragicamente: l’architettura come art plastique. Un’architettura come sintesi, certo non cinica e indifferente, di tensioni e contraddizioni, che le tecnologie della costruzione ponevano a chi non volesse limitarsi a fare del progettista un autore, magari illustre, di simulacri.
Il senso del premio alla carriera
I premi hanno una data; e le date non celebrano solo anniversari e non sono solo medaglie da aggiungersi al petto appesantito di un celebrato generale. Interpretano un tempo e forse richiedono una spiegazione che la giuria ha colto (non saprei dire quanto intenzionalmente). Il premio di oggi a Frampton solleva una riflessione profonda sul mestiere dello storico dell’architettura, sul suo statuto intellettuale, prima ancora che scientifico, sulla ricerca di forme di professionalizzazione riprese da saperi che con la militanza, la critica, la responsabilità davvero poco hanno a che fare. È un premio, come non molti lo sono, non certo nostalgico, anche se alla carriera.
È un premio che invita a rimettere le mani in un presente parcellizzato, cannibalizzato per l’architettura da ideologie (come lo smart o una sostenibilità tutta tecnica), ma anche da un primato sempre più indiscusso delle procedure sui contenuti: e questo vale per la costruzione degli edifici come per la produzione scientifica degli storici. Il premio a Frampton è un avviso ai naviganti, attraverso una testimonianza che richiama quanto l’architettura rimanga una necessità – e non un’installazione, più che mai effimera – se sa mettere in relazioni sistemi di valori, educa alla critica, sa continuamente ridefinire l’impegno alla ricerca delle relazioni che legano significati, modi di rappresentarli, narrazioni. A volte arcigna, a volte ellittica, la scrittura di Frampton anche questo indica a chi crede che la critica si possa risolvere in… un tweet o in un’invettiva, in una battuta o in una banalizzazione dei conflitti che anche le architetture non autoriali sempre incorporano ed esprimono.
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biennale venezia 2018 , Storiografia
Last modified: 16 Maggio 2018
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