La prima parte del report dalla città partenopea si concentra sulla vicenda urbanistica e sulle porte di accesso
Leggi la seconda puntata: Napoli ha bisogno di architettura
Premessa. Città metropolitana vs Provincia
«Porre al centro di ogni prospettiva di sviluppo territoriale la riqualificazione ambientale e la valorizzazione del paesaggio»,
questo l’incipit del Piano territoriale di coordinamento (PTC) in fase di attuazione. Ovviamente condivisibile: e come potrebbe essere il contrario?
Il PTC è stato adottato tra gennaio e aprile 2016. Il 19 febbraio scorso sono scaduti i termini per il deposito delle osservazioni. Stiamo parlando quindi di una pianificazione in itinere e di Città metropolitana. La legge 7 aprile 2014 n° 56 istituiva le Città metropolitane recando «disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni». La parola chiave è fusione, e l’incongruenza è: la coincidenza dei confini metropolitani con quelli provinciali. Facciamo un ragionamento, la finalità dettata dalla legge recita: «cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano». Appare chiaro che tale “cura” può essere perseguita con efficacia solo da un’entità omogenea. Fusa, appunto. Se questo non accade siamo esattamente nelle condizioni pre legge. Vale a dire nei confini geografici e di competenza della Provincia e il PTC è di fatto un PTCP (Piano territoriale di coordinamento provinciale). Quale politica di respiro europeo può mettere in campo un ente siffatto frammentato e contradditorio, quando il confronto avviene con Berlino, Amsterdam, Barcellona, ad esempio, città all’avanguardia per sostenibilità delle politiche in atto, qualità della vita, bassi livelli d’inquinamento e gestione dei servizi?
Le porte della città
Il limite del “processo Napoli” sta nella visione anacronistica di orizzonte cittadino contro una linea di tendenza europea che imposta la ricerca di benessere almeno a scala metropolitana, ma intesa come territorio largo. Si pensi che la superficie della Città metropolitana di Napoli risulta inferiore all’estensione del Comune di Roma (1.285 kmq contro 1.171). Napoli rinuncia a “rappresentare” l’intero territorio per diventarne il motore di una possibile emancipazione. Ne è metafora un’oggettiva inadeguatezza degli accessi alla città. O uscite, che è poi la stessa cosa in termini d’interrelazione.
—
Via Nuova Marina
Costituisce l’ingresso ad est, vale a dire dall’entroterra che da sud-est arriva fino a Caserta, cioè a nord. Significa che l’intero sistema di viabilità da nord, sud ed est (quindi le autostrade da Bari e da Salerno, il tristemente noto asse mediano, asse di supporto e altro), confluisce nell’imbuto portuale. Per anni i più furbi si sono infilati nel porto avendo permessi di comodo, gli altri sono rimasti imbottigliati nel traffico. Oggi la presenza di diversi sistemi di collegamento – metropolitana regionale – ha appena alleggerito la pressione.
Dopo anni di abbandono, via Nuova Marina è finalmente oggetto di un ridisegno con un cantiere che accumula ritardi impressionanti. Eppure la strada ha un suo valore architettonico. Di fronte alle palme di progetto stile Las Vegas c’è una coppia di edifici impostati sui lati di un lotto triangolare. Contano dieci piani e appaiono compatti e rigorosi nella ripetitività degli elementi dell’abitare. Sono stati progettati da Carlo Cocchia, Giulio De Luca e Francesco Della Sala (1951-53) e conservano una riconoscibilità superiore alle manomissioni delle verande, delle tende e della foresta di antenne in cima. Più avanti, scansate le palme, c’è il Mercato del pesce di Luigi Cosenza (1929-30): una grande volta a botte chiusa dal vetrocemento e poggiata su un basamento più articolato. Intorno cumuli di rifiuti tra cui i poveri frugano come disperati esploratori, in fondo il profilo del Vesuvio. E sempre in zona c’è la Casa del portuale di Aldo Loris Rossi (1969-81), che ritorna ciclicamente di attualità come quartier generale di sanguinari camorristi nella fiction televisiva di turno. Infine, l’edificio di Luigi Moretti destinato a uffici e negozi (1969-73), si relaziona alla strada attraverso un porticato ondulato a doppia altezza in cemento ruvido con i pilastri sagomati a guisa di tronchi di alberi. Non è tra le opere maggiori dell’architetto romano ma è il suo unico intervento a Napoli ed è l’unico residuo di un più ardito progetto di edificazione dell’intero fronte stradale secondo criteri unitari. In ogni caso in un piccolo tratto di strada si contano diversi episodi di qualità architettonica. Quasi un tessuto, malgrado le palme. Ma il punto è: quanto riescono a “parlare” questi edifici alla città, che poi significa ai non addetti?
—
Quartiere Fuorigrotta
Dal lato ovest, racchiuso tra Posillipo e la caldera dei Campi Flegrei, è il nodo di connessione con il territorio flegreo fino al litorale domitio. Lo spartiacque del terremoto del 1980 segna l’avvio del massimo degrado fino al Garigliano. Quando appartamenti e ville furono requisiti per alloggiare circa 300.000 sfollati provenienti dalle zone più povere della regione s’interruppe il sogno della borghesia piccola e media di costruire una sorta di Napoli marittima alle porte di casa. Non a caso le ambientazioni più truci di Gomorra e altre del genere sono state reperite lì. L’imbalsamatore di Matteo Garrone del 2002 è la narrazione più spietata del degrado umano e ambientale. Le problematiche dei territori, come è evidente, premono sulla città. E Fuorigrotta in sé contiene la stessa criticità nei collegamenti urbani, essendo il quartiere relazionato alla città centrale attraverso due tunnel, mentre una serie di strade trafficate e tortuose salgono al Vomero.
La Mostra d’Oltremare è l’episodio più importante di architettura moderna nell’area. Marcello Canino progettò l’impianto nel 1938. Doveva essere una specie di EUR declinato secondo la tradizione urbanistica napoletana, con un insediamento a scacchiera tipo Quartieri Spagnoli. All’interno ci sono opere dei maggiori architetti del secolo scorso da Canino a Cocchia, da De Luca a Chiaromonte, fino al Padiglione America Latina progettato da Capobianco, Sbriziolo e Marsiglia, inaugurato nel 1950 e in corso di restauro.
—
Secondigliano-Capodichino-Centro
Il sistema di connessione si avvale delle linee ferrate. Il Piano comunale dei trasporti fu approvato nel 1997 come un “progetto complessivo di sistema” integrato con le ferrovie regionali con caratteristiche metropolitane. Il progetto è ancora in corso per quello che interessa le direttrici a tutt’oggi escluse dalla mobilità su ferro: la Secondigliano-Capodichino-Centro ad esempio. Il collegamento con l’aeroporto di Capodichino è ineludibile; il progetto in fase di realizzazione è a firma di Richard Rogers. La rete regionale funzionante arriva fino ad Aversa, avendo in Piscinola il nodo di scambio. Ma si può dire che il flusso maggiore si muove al contrario: dal territorio alla città. Con il peso conseguente. Piscinola vale a dire: Scampia, e quindi Vele.
La storia degli edifici progettati da Franz Di Salvo e costruiti dal 1962 al 1975 è nota. La decisione di buttarle giù ormai appare irreversibile. Tecnica della demolizione meccanica top-down e via. Non importa che prima di diventare – per responsabilità di chi? – icona del male assoluto fossero invece icona di modernità e utopia. Il costo complessivo dell’operazione è pari a circa 30 milioni. Ne rimarrà in piedi solo una, la Vela celeste. La domanda è: se è possibile rigenerarne una, perché non tutte? Le Vele saranno abbattute, lo chiede tutto il mondo; onore alle Vele. Qualche anno fa in occasione del quarantennale della morte di Pasolini, Pignon-Ernest ha incollato uno dei suoi “sudari di carta” su un muro della Vela celeste. Il poeta che come una pietà laica porta tra le braccia il suo stesso corpo senza vita e interroga i passanti: cosa ne avete fatto del mio martirio? Ogni cosa accade perché s’inneschi una rielaborazione e un processo. Se no qualsiasi evento nel bene e nel male sarà stato inutile. Cosa ne faremo, noi tutti, della fine di questa utopia?
Stazione Alta velocità di Afragola
Nel 2017 è stata inaugurata la stazione progettata da Zaha Hadid Architects. L’impressione da molti condivisa è di un’inutile cattedrale nel deserto. E difatti l’inesistenza di collegamenti denuncia una localizzazione dovuta a motivi più politici che tecnici e non candida la stazione ad alternativa per l’entroterra rispetto a Napoli Centrale. Inoltre, non risultano né intensificati né migliorati i collegamenti con Roma e Bari. Questioni di tipo territoriale e relazionale, mentre quello che suscita vivace discussione tra gli addetti ai lavori è l’edificio in quanto oggetto architettonico. Tuttavia, senza entrare nel merito e con le riserve accennate, credo che non possa che fare bene quest’opera ad una terra che ha un bisogno disperato di educare i suoi figli all’architettura. A riconoscerne cioè il valore sovversivo dell’emancipazione.
Vicenda urbanistica insolvibile
In fase di redazione del PRG della città (prime ipotesi nel 1962 e approvazione nel 1972), negli anni sessanta il Ministero rigetta la proposta avanzata dal Comune di elaborare un piano intercomunale con i comuni interessati riuniti in consorzio. Il PTC odierno in qualche modo dovrebbe assolvere al compito di riferimento. Tuttavia, come accade per i PTCP vigenti nella Regione, tali strumenti si limitano alla sola localizzazione e quantificazione del fabbisogno abitativo prescrittivo, talvolta incoerente rispetto alle situazioni reali. Questo vale ancora di più nel caso Napoli, per le contraddizioni espresse sulla natura stessa della cosiddetta Area metropolitana.
La vicenda urbanistica della città è complessa. Il PRG viene approvato nel 1972 con una cifra di esecutività praticamente pari a zero, in quanto le scelte puntuali sono rimandate agli strumenti attuativi. Che naturalmente non saranno mai redatti. La pianificazione della città va avanti per varianti: da quella relativa all’area interessata all’insediamento universitario di Monte Sant’Angelo, a quelle per il Centro direzionale, o per l’area di Bagnoli, fino alla decisione di redigere una Variante generale approvata nel 2005.
In mezzo, il terremoto del 1980 impone un Programma straordinario di edilizia residenziale dislocata nella già definita Area metropolitana da Pozzuoli a Quarto a Caivano, ma principalmente nei dodici ex casali individuati con l’intento di avviare un processo di rigenerazione delle periferie, da Piscinola-Marianella a Ponticelli, da Barra a Pianura. Gli insediamenti realizzati portano le firme, tra gli altri, di Franco Purini e Laura Thermes, Costantino Dardi, Michele Capobianco, Riccardo Dalisi.
In copertina: l’ingresso in città visto dall’autore
About Author
Tag
napoli , rigenerazione urbana , ritratti di città
Last modified: 14 Maggio 2018
[…] Leggi la prima puntata: Napoli insolvibile […]