Considerazioni – con qualche perplessità e preoccupazione per il futuro – intorno all’intervento d’iniziativa pubblica inaugurato a Bologna su progetto di Diverserighe Studio
BOLOGNA. Il 23 settembre 2017 si è tenuta l’inaugurazione (un po’ in sordina) della residenza “Porto 15”, un investimento complessivo di circa 2 milioni per uno dei rari esempi in Italia di cohousing realizzati per iniziativa pubblica. L’area è a ridosso della Manifattura delle Arti, circa 100.000 mq oggetto tra il 1996 e il 2003 di un piano di riqualificazione urbanistica che ha portato, tra l’altro, al recupero di alcuni edifici oggi sedi universitarie, comunali e museali.
In questa zona della città ricca di attività culturali, “Porto 15” accoglie 18 nuclei familiari per un totale di 34 persone “under 35” (single, coppie e bambini), in appartamenti a canone concordato: “6+2” anni, 290-390 euro al mese, alloggi di 36-56 mq. Come consuetudine di ogni cohousing sono previsti spazi a uso collettivo: soggiorno-pranzo con cucina, lavanderia con area stiro, ambienti per il tempo libero (musica, lettura, laboratorio, palestra) e per l’ospitalità. Il progetto si sviluppa seguendo quattro temi assimilati dalle esperienze consolidate di cohousing scandinavo: visibilità e relazione con la città e tra cohousers; condivisione di spazi e attrezzature; separazione tra spazi collettivi e privati.
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L’iniziativa
L’idea di un cohousing pubblico nasce nel 2009, quando il Comune di Bologna (Settore politiche abitative) partecipa con il progetto “Dalla rete al cohousing” alla selezione di iniziative volte a «incrementare la disponibilità di alloggi da destinare in locazione ai giovani nelle città metropolitane», promossa dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e finanziata con oltre 1,4 milioni. A sostegno del Comune interviene ASP IRIDeS (oggi “ASP Città di Bologna”) che mette a disposizione un immobile e un cofinanziamento. Il progetto rispondeva agli obiettivi ministeriali di favorire l’incrocio fra domanda e offerta tramite il web, agevolare l’accesso all’affitto per i giovani e sperimentare modelli di coabitazione per utenti fra i 18 e i 35 anni.
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La mostra
Nell’ottobre 2012, il progetto architettonico (affidato allo studio bolognese Diverserighe) viene presentato pubblicamente in occasione della mostra/convegno “Cohousing. Abitare e condividere”. In quei giorni la città viene così a conoscenza dell’ambiziosa iniziativa e di una modalità residenziale fino a quel momento sconosciuta ai più. Il convegno mette in evidenza pro e contro del cohousing, facendo sorgere alcune perplessità circa il target ristretto di utenti e la temporaneità imposta dal bando ministeriale.
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I lavori
Nel settembre 2015 ha avuto inizio la ristrutturazione dell’edificio, da sempre destinato a scopi sociali. I lavori sull’immobile hanno determinato una nuova destinazione d’uso, ma hanno anche suscitato aspre polemiche circa la scelta di allontanare in altre aree urbane il servizio di mensa comunale e centro diurno per utenti in difficoltà, fino ad allora importante riferimento per categorie sociali disagiate.
Contestualmente, viene avviato anche il processo di selezione e formazione della comunità. Fra i 143 candidati che rispondono al bando, la cooperativa SuMisura – già coinvolta nella realizzazione del cohousing Numerozero di Torino – ne seleziona 40, con cui avvia il processo di costruzione del gruppo mediante laboratorio partecipato, suddiviso in quattro fasi. La selezione dei futuri cohousers avviene sulla base della rispondenza ai criteri formali imposti dal bando (età, residenza, ISEE) e sulla capacità dei singoli di “fare gruppo” intorno alla “carta dei valori” e a un regolamento approvati e sottoscritti da tutti, con cui vengono disciplinate la gestione degli spazi, dei tempi e delle attività comuni.
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Luci e ombre
Va quindi riconosciuto il merito a chi, con perseveranza, è riuscito a concludere un esperimento così importante e difficile, pionieristicamente intrapreso in tempi in cui la materia era ancora in gran parte da studiare: l’Amministrazione comunale ha dimostrato di avere lungimiranza, determinazione e capacità di assumersi rischi concreti. Così come va riconosciuta la scelta d’impiegare risorse pubbliche per finanziare interventi di recupero e riuso, orientamento che il CNAPPC sostiene con forza da tempo. Infine, chapeau ai giovani residenti che hanno deciso di intraprendere questo percorso “nuovo”, i cui esiti incerti scoraggerebbero i più fervidi sostenitori del modello scandinavo.
Tuttavia, sorgono alcuni dubbi sulle caratteristiche e le modalità di gestione del progetto. Innanzitutto, l’iter ha richiesto quasi 9 anni dall’ideazione al completamento dell’opera. Tempi molto lunghi anche per un cohousing, la cui media si aggira intorno ai 4-5 anni comprendendo formazione della comunità, reperimento dell’area edificatoria, accordi con gli enti locali, finanziamento bancario, progettazione e realizzazione dell’opera. Certamente, le difficoltà burocratiche e amministrative e l’esistente legge sugli appalti non semplificano tali iniziative, che restano casi isolati. Infatti, se da un lato la società sembra pronta ad affrontare l’esperienza di una modalità residenziale considerata nuova – ma che ha alle spalle ormai quasi 50 anni di successi e fallimenti –, dall’altro gli aspetti normativi dimostrano l’incolmabile distanza dalla realtà di una legislazione lenta e inadatta a rispondere a bisogni molteplici e rapidamente mutevoli. La proposta di legge per la promozione del cohousing a firma dell’allora ministra Giovanna Melandri è rimasta in qualche cassetto del Parlamento, lasciando così questo modello ad appannaggio quasi esclusivo di associazioni e società private. E dire che gli esempi da studiare non mancano: le esperienze di promozione e finanziamento pubblico sono frequenti in Svezia, dove il cohousing è da anni una diffusa alternativa abitativa, ricercata e apprezzata soprattutto dai giovani.
In secondo luogo, la condizione richiesta dal bando ministeriale di un periodo limitato di tempo di occupazione degli alloggi (6 anni) pone seri problemi sulle prospettive di vita e di successo di questo caso. Fatta salva l’Olanda – dove l’ampia diffusione di abitazioni collaborative ne consente una fruizione per un periodo anche breve, avvicinandole più a strutture temporanee che a comunità elettive –, in generale il cohousing richiede un impegno senza scadenze. Gli 8 anni complessivi previsti per la fruizione degli alloggi da parte dei residenti sembrano pochi: cosa accadrà allo scadere del contratto? Come sarà affrontato il presumibile avvicendamento simultaneo degli abitanti allo scadere dell’ultimo anno? Perché, quindi, trovarsi costretti ad impegnare altro tempo e risorse per la formazione di un secondo gruppo di utenti, quando auspicabilmente il primo avrà allora trovato un rodato equilibrio?
Sorge un’ulteriore perplessità a proposito della spinta che tale isolata iniziativa si ritiene possa generare, in primis fra i giovani a cui si rivolge. 18 nuclei familiari, in una città dove migliaia di studenti fuori sede di accalcano annualmente alle porte dell’Ateneo in cerca di alloggi i cui affitti (in gran parte in nero) si aggirano intorno ai 400 euro per una camera: una goccia nell’oceano. Anche a Bologna – come nel resto del Paese – manca da tempo un vero progetto politico della casa, una seria pianificazione. Manca la regia di una tavola rotonda fra Università, Comune, Sindacati e figure coinvolte in un problema che da solo è in grado di distorcere l’intero mercato dell’affitto (privato) in città e che interessa tanto le fasce di studenti più giovani quanto quelle di giovani coppie, neo professionisti ecc. Il cohousing è una forma residenziale molto interessante ma, per la sua difficile e lenta realizzazione e i numeri ridottissimi a livello globale (in Svezia non riguarda più dell’1% della popolazione), esso sembra uno strumento inadatto a risolvere un problema dai grandi numeri come quello della casa.
Infine, scindere per (incontrovertibili) ragioni giuridico-amministrative l’aspetto progettuale dell’edificio da quello della comunità, consegnando l’immobile pressoché finito, va contro ogni prassi collaudata. È comprovato che i residenti devono sentirsi co-protagonisti della realizzazione del cohousing fin dal suo concepimento, in un lavoro simbiotico e di vicendevole apporto con il progettista che spazia dalla scelte compositive agli arredi. Solo così si garantisce l’equilibrio fra risultato architettonico, funzionalità dell’edificio, rispondenza alle richieste della comunità e suo rafforzamento identitario.
Pur meritevole di attenzione, “Porto 15” va quindi considerato come un test di sociologia urbana più che di architettura e di progettazione dell’abitare. Un esperimento in cui ai giovani cohousers che si sono prestati a fare da “cavia” vanno i migliori auguri, consapevoli della curiosità che il loro vivere quotidiano susciterà da parte di chi si occupa di queste modalità abitative e delle numerose espressioni di interesse per un crescente bisogno di socialità.
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Carta d’identità del progetto
Promotore: Comune di Bologna in partnership con ASP Città di Bologna, cofinanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale e ASP Città di Bologna.
Progetto Architettonico ed esecutivo: Diverserighestudio e Azienda Casa Emilia Romagna (ACER) – Bologna
Direzione lavori: Azienda Casa Emilia Romagna (ACER) – Bologna
Progetto sociale: Asp Città di Bologna; Cooperativa SuMisura
Superficie lorda complessiva: 1680 mq
Superficie netta complessiva: 1255 mq
Residenze: n. 6 bilocali + n. 10 trilocali
Abitanti accoglibili: n. 39
Superficie netta residenze: 740 mq
Superficie netta interrato: 65 mq
Spazi comuni per attività principali: n. 10 vani
Superficie netta spazi comuni per attività principali: 225 mq
Superficie netta spazi comuni per attività secondarie: 95 mq
Collegamenti verticali: 130 mq
Spazi all’aperto: 230 mq
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bologna , social housing
Last modified: 4 Ottobre 2017