Raffinato studioso di Genova, a lui si deve il consolidarsi di una storia urbana come pratica colta
Non è semplice trascrivere per chi non lo ha conosciuto, i tratti essenziali della ricerca di Ennio Poleggi. Tanti lo hanno ricordato per la sua capacità di essere lo studioso più raffinato della sua città – Genova – e per aver saputo trasformare il suo studio in un impegno civile e politico per il risanamento del centro storico. Altri ne hanno sottolineato la capacità d’indagine e il fondamentale studio sui Rolli, la pazienza, la profondità, l’argomentazione che ha contraddistinto quella ricerca e la sua trasformazione in una vera “arma” nella battaglia politica per il recupero dei palazzi del centro storico. Un esempio di public history in grande anticipo da cui credo sia giusto ripartire. Perché Poleggi non è stato solo un cittadino illustre della sua città, di cui è giusto raccontare “ la vita”. Poleggi è stato ben di più.
A lui, come a pochi altri, la cultura italiana deve il consolidarsi di una storia urbana raffinata e colta che si è misurata con i temi più complessi che quella storia stava dibattendo in Francia, in Germania, negli Stati Uniti. È difficile parlare di Poleggi senza parlare di Edoardo Grendi, Marcel Roncayolo, Peter Clark o Charles Tilly. Di storici cioè che da diverse angolazioni hanno fatto della città il laboratorio più raffinato di sperimentazioni di metodi, fonti, argomentazioni storiche e storiografiche. E Poleggi ha saputo muoversi con grande attenzione in un contesto europeo e non solo assai articolato e a volte in conflitto, fornendo un contributo originale a quella storia. Forse un suo testo pubblicato in un volume che riassume quella temperie culturale, è in grado meglio di altri, di far capire il suo “punto di vista” e le relazioni che il suo lavoro costruiva con altre storie urbane. Il libro è La città e le sue storie, uscito nel 1995 per Einaudi e il saggio di Poleggi ha come sottotitolo “una storia di usi e valori”. Per capire sino in fondo chi è Poleggi bisogna però almeno accennare agli altri coautori: Marcel Roncayolo, Philip Benedict, Arlette Farge, Jeanne Chase, Peter Clark, oltre ai due curatori del volume Bernard Lepetit e Carlo Olmo. Quegli autori e i loro saggi rappresentavano i punti di vista più interessanti e capaci di guardare alla città come laboratorio ideale per mettere a punto le analisi sui modelli (non solo urbanistici), sulle élite sociali, sulla costruzione dell’opinione pubblica, sulla reinvenzione della città, sul rapporto tra tempo, spazio e dialogo sociale. Si tratta di saggi che costruiranno l’autentico cassetto degli attrezzi della storia urbana per quasi due decenni. E il saggio di Poleggi si ritagliava in quell’insieme di studi uno spazio non certo marginale. Sin dalla premessa che spiegava cosa era e come si poteva costruire una microstoria urbana e quanto la storia della città fosse una storia in cantiere; questo in un momento in cui la storia dell’architettura, non solo della città, era permeata di relativismo e di… nanostorie. Ma era soprattutto nel secondo paragrafo che Poleggi entrava in una riflessione sul formarsi di valori in un mercato non solo imperfetto, ma intessuto di simboli, posizioni, produzione di diseguaglianze economiche attraverso usi che si stratificavano e si scontravano con piani e progetti, richiedendo un continuo andare e venire dalle fonti all’interpretazione. Il caso genovese e i Rolli rientravano così in quel saggio dalla porta principale della storia urbana e davano spessore a una riflessione sui valori e alla loro se si vuole soggettività, con intuizioni che uscivano dal caso studio e proponevano un taglio di lettura interessantissimo e anticipatore di studi e riflessioni che dovevano toccare la struttura stessa della narrazione urbana.
La passione civile di Poleggi, la sua capacità di creare allievi non solo accademici, la sua volontà di rendere pubblico e utile un patrimonio di studi così personale non sono forse che elementi di una storia personale straordinaria iniziata in aule di disegno di scuole tecniche e professionali, ma costituiscono il nucleo di un’eredità che oggi è messa in discussione dalla crisi dell’urbanistica e della storia nelle facoltà di architettura, sempre più vicine alla brutta copia di scuole tecniche. Poleggi era un ricercatore, uno studioso, un archivista e la sua lezione di provare le proprie affermazioni nell’universo probabilista che è quello della città, oppure di tacere, rimane davvero un lascito intellettuale su cui sarebbe molto utile riflettere oggi.
[…] Nel 2000, il nuovo Piano regolatore aveva previsto di agire sul centro storico anche con “alleggerimenti volumetrici” e incentivando “l’azione dei privati, attraverso un meccanismo attuativo diretto – scrive l’urbanista Andrea Vergano – al fine di favorire un recupero diffuso. Dall’altra indirizza l’azione pubblica su situazioni particolari, per innescare processi di recupero più ampi […]. Un’azione che trova linfa nei finanziamenti derivanti dai grandi eventi” come le Colombiane (1992), il G8 (2001) e la Capitale europea della cultura (2004). Gabrielli lo definiva uno “strumento rozzo, certo scarsamente sofisticato, ma operativo, che è stato ricondotto ad un centinaio di schede di azioni (dove sono esplicitati l’obiettivo, la provenienza delle risorse, la data di inizio e quella di conclusione, i soggetti coinvolti)”. Una differenza di approccio e metodo che tendeva, ventuno anni fa, a valorizzare il patrimonio storico che portò al riconoscimento Unesco del centro storico, grazie all’indimenticata opera dello storico Ennio Poleggi. […]