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Antonio Sant’Elia, disegnatore pop divenuto santo del futuribile

Antonio Sant’Elia, disegnatore pop divenuto santo del futuribile

La Triennale di Milano fino all’8 gennaio dedica una mostra a un personaggio geniale ma incompreso della storia dell’architettura a cento anni dalla morte prematura: ne parliamo con Fulvio Irace, curatore insieme ad Alessandra Coppa, Alberto Longatti, Maria Mimmo e Valentina Minosi e Ornella Selvafolta

 

Il futuro visto con gli occhi di Sant’Elia è in mostra alla Triennale di Milano per celebrare il centenario della morte dell’architetto geniale ma forse incompreso dalla storia dell’architettura. Il racconto inizia con una sala dedicata al contesto storico in cui si è formato Antonio Sant’Elia per poi entrare nel vivo della mostra in cui sono esposti 40 disegni originali che raccontano il progetto della visionaria “Città Nuova” (1914), la grande città del futuro, ma anche la sua maestria nel disegnare che lascia i visitatori incollati ad ogni opera per ammirare ogni singolo dettaglio delle sue uniche prospettive. L’ultima sezione dell’esposizione guarda alle città di oggi e a come il lavoro di Sant’Elia ha influenzato la progettazione del XX secolo e rende omaggio al grande architetto con un’installazione realizzata da Alessandro Mendini.

Affrontiamo il tema con Fulvio Irace, storico di fama internazionale e curatore della mostra insieme ad Alessandra Coppa, Maria Mimmo e Valentina Minosi.

 

La storia dell’architettura a volte è fatta più dai disegni che non dagli edifici…

Non c’è nessun dubbio e forse accade non solo con la storia dell’architettura. Ma è pur vero che ci sono degli edifici che sono rimasti delle icone. La mia idea è che a volte il grado d’intensità aumenti se contiene anche un certo grado d’indeterminatezza che lascia aperto uno spazio all’immaginazione. È il caso, per esempio, della Casa sulla cascata, del Crystal Palace, della Ville Savoye: sono prototipi diventati se non archetipi, certamente delle icone, che però alla fine possono essere replicati riproponendoli solo nella stessa forma, non possono dare vita ad una scuola. La città nuova di Sant’Elia, in un certo senso se da un lato sembra dire tante cose – gli ascensori esterni, i materiali, – ne sottace tuttavia delle altre. Oltretutto non abbiamo mai visto, a differenza delle altre utopie classiche, da Garnier a Le Corbusier, come fosse un edificio di Sant’Elia. Dobbiamo immaginarcelo, perché si tratta sempre di viste di tre quarti, vediamo al massimo due lati, ma non sappiamo come sono fatti sul retro, ad esempio. Come accade per la letteratura e il cinema – leggendo un libro ognuno di noi si immagina i personaggi – allo stesso modo ognuno di noi ha un Sant’Elia nella sua testa. Infatti io credo che anche il termine “futurista” sia poi diventato sinonimo di futuribile: tutto ciò che allude al futuro ha trovato in un certo senso un santo in Sant’Elia, o una giustificazione in Sant’Elia.

 

Quindi il futuro è futuribile? In fondo il nostro è stato un illustratore di Science Fiction prima che questa arrivasse…

Era un grande talento Sant’Elia, ma abbastanza paradossale. Se ci pensiamo è un perito tecnico, che è arrivato a Milano a 18 anni ed è morto a 28, e in questi 10 anni ha lavorato per vivere, come impiegato al canale Villoresi o impegnato al Piano regolatore. Alla fine faceva principalmente il disegnatore, peraltro mostrando in questo un vero talento. Anche questo è un paradosso: com’è possibile che una persona così “illetterata” riesca a creare immagini di una risonanza ancora così forte mentre tutte le utopie del suo tempo sono sfiorite? In fondo, forse, la grande intuizione – che non so se sia stata un’intuizione davvero o un modo istintivo di pensare – è stata quella di puntare sull’immagine e, infatti, noi siamo ora nel secolo dell’immagine per eccellenza. Ma la sua è un’immagine sintetica, che lascia spazio all’immaginazione, mentre gli altri autori del suo tempo erano molto descrittivi. Quindi noi oggi avvertiamo l’obsolescenza, la distanza di questi, mentre Sant’Elia è così sintetico che potrebbe essere considerato quasi pop in quelle prospettive colorate, quasi un poco alla Andy Warhol.

 

Secondo Lei c’era un grado d’inconsapevolezza in queste immagini?

Credo che lui fosse consapevole del valore delle immagini perché vi aveva lavorato. In fin dei conti non aveva frequentato scuole di architettura, certamente non era una persona colta, però guardava molto alle riviste e agli architetti dell’epoca. È stato un grande assimilatore di iconografia e credeva nell’immagine, che per lui aveva la capacità di evocare immediatamente. Anche nel manifesto del Futurismo, che non ha scritto lui ma che è stato rieditato sotto l’egida di Tommaso Marinetti, le sue visioni cadevano perfettamente come accompagnamento al concetto di città nuova.

 

Forse la sua fortuna è stata anche quella di non essere stato un vero grande teorico, di non avere scritto troppo, ma di avere lavorato per immagini lasciando agli altri il problema teorico.

Sì certamente, perché le teorie invecchiano e noi oggi siamo nel secolo post ideologico per eccellenza. Sant’Elia da questo punto di vista ha una sua attualità nel senso che la gente lo può capire meglio.

 

Anche “la bella morte” forse è stata una parte della sua fortuna…

Certamente, perché esce dalla storia ed entra nel mito: un eroe futurista. In quegli anni c’erano a Milano personaggi di talento che lui ha conosciuto: per esempio Giulio Ulisse Arata, architetto dotato come del resto è stato anche Giuseppe Sommaruga, che però alla fine vengono classificati come episodi più o meno minori all’interno del periodo Liberty. Invece per Sant’Elia la morte è giunta a liberarlo dalla necessità di dovere dimostrare, di dovere costruire le proprie utopie. Mentre gli altri sono rimasti ancorati al tempo storico, lui è rimasto senza tempo.

 

Secondo Lei come mai, in generale ma anche nelle nostre università, non è poi così conosciuto? È considerato un genio, ma non è una delle figure che poi vengono studiate.

Ci sono diversi motivi. Uno è che gli studenti non lo approfondiscono perché nessuno glielo propone, perché la storia dell’architettura è anche una storia di grandi censure, e lui non è l’unico caso. Sant’Elia rappresenta un episodio minore che stranamente si è svolto in Italia. Forse è stato quasi più il simbolo di un provincialismo italiano, mentre all’estero sicuramente in tanti si sono ispirati alla sua figura.

 

Oggi abbiamo grandi produttori di immagini, che si solidificano a volte in edifici ma che forse lasciano poco…

Questo è vero, ma qui c’entra anche il talento: non basta produrre immagini per aver talento. Così come è anche vero che, mentre Sant’Elia applicava il suo talento per cercare di visualizzare gli effetti tridimensionali di una società industriale, la nostra visione del futuro è un po’ più incerta. Sappiamo che il futuro dovrà essere smart e sostenibile, però nessuno ha gli strumenti per definirlo come tale.

 

Forse non abbiamo più un futuro che sia futuribile.

Non ce l’abbiamo perché, mentre per Sant’Elia il punto di partenza era, come per i modernisti, il paradigma industriale, oggi, in fase post industriale, non esiste più. Il nostro riferimento sono, per esempio, le nanotecnologie e le biotecnologie. Oggi ci troviamo in una fase molto interessante nella quale i temi legati all’organicismo avanzati negli anni venti, come l’espressionismo, definiti inclassificabili soprattutto perché erano completamente avulsi dalla realtà, possono essere realizzati grazie alle tecnologie a nostra disposizione, con le quali possiamo arrivare a una forma di organicismo che però non è ispirata tanto alla natura esteriore, quanto all’interno della natura, a quello che vediamo grazie alle nanotecnologie e che costituisce un alimento per l’immaginazione.

 

Avremo quindi un nuovo Sant’Elia?

Penso che potremmo averlo, ma magari non sarà italiano.

 

Immagine di copertina: studi di stazione ferroviaria

 

Antonio Sant’Elia (1888-1916). Il futuro delle città

25 novembre 2016 | 8 gennaio 2017

Triennale di Milano

Promossa da: Soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Milano e di Como, dal Comune di Como e dalla Triennale di Milano

A cura di: Maria Mimmo e Valentina Minosi (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio) e Alessandra Coppa, con Fulvio Irace, Alberto Longatti e Ornella Selvafolta

Progetto di allestimento: Lucio Speca

Progetto grafico: Andrea Lancellotti

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Last modified: 20 Dicembre 2016