Dalla conferenza stampa di apertura Alejandro Aravena ha convinto quasi tutti, spostando i termini del problema dalle architetture iconiche, che ci saranno sempre, alle logiche del profitto che non rispondono ai bisogni
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VENEZIA. Teatro pienissimo, luci basse, due uomini al comando: Paolo Baratta in giacca e cravatta, Alejandro Aravena in camicia bianca. La conferenza stampa inizia alle 11.05, orario quasi perfetto.
Partenza efficientissima, con l’immancabile sfilza di numeri da cui gronda soddisfazione: 65 paesi partecipanti (per 5 è la prima volta: Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles, Yemen), 88 équipe di architetti impegnati nella mostra principale, “Reporting from the Front”, quasi 3.000 giornalisti accreditati da tutto il mondo. Poi il presidente della Biennale di Venezia passa su un piano più emozionale: “Grazie Aravena. Le prime reazioni dimostrano che i tempi erano giusti per questo genere di tematiche. Affrontate con chiarezza, ci dimostrano che l’architettura è strumento per il nostro spazio comune. La Biennale è una macchina del desiderio, non dà risposte. Ma incoraggia la speranza”.
Speranza. Ma anche sfide e società. Eccole le parole chiave della Biennale Architettura numero 15. Alejandro Aravena è una scelta di campo. Lui ringrazia, parla per circa mezz’ora senza citare nessun architetto, nessun maestro, nessun progetto. “Questa mostra vuole essere un ponte tra i problemi e le soluzioni. Ci sono tante sfide da affrontare, facciamo vedere qualche esempio possibile. Non solo tra e per architetti. Ci rivolgiamo ai politici, a chi prende le decisioni, insomma alla società. Ci sono tante forze che insieme danno forma agli ambienti che viviamo”.
Domande e commenti puntano ad una visione: da qua in poi cambiano dimensione e ruolo dell’architetto. Baratta asseconda: “Finisce l’epoca dell’archistar che nel suo studio attende la telefonata di uno sceicco”. Aravena ridimensiona un po’ e sposta la sua front-line: “Il problema non sono le architetture iconiche, che ci sono e ci saranno. I nostri nemici sono le logiche del profitto che non rispondono ai bisogni insieme a mediocrità e banalità degli ambienti costruiti. Ma non basta lamentarsi, bisogna lavorare per la qualità, dobbiamo fare progetti capaci di raccontare storie. Venezia può essere una tappa importante di questo processo”.
L’applauso della platea spiega, più di mille commenti, che il curatore cileno ha convinto tutti o quasi: la Biennale è sua.
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alejandro aravena , allestimenti , biennale venezia 2016 , reporting from the front , venezia
Last modified: 26 Maggio 2016