Che cosa significa conservare l’edificio progettato da Oscar Niemeyer per il Partito comunista francese? Difendere ormai l’indifendibile, data l’inesorabile metamorfosi da luogo pulsante della partecipazione e della militanza a monumento desacralizzato dell’architettura contemporanea
Prologo: un giorno, a Parigi
– Buongiorno, siamo qui per visitare l’edificio.– Questa è una casa, non un museo. Cosa cercate? Siete iscritti, militanti? Avete la tessera?– Veramente no… Quale tessera?– Quella del partito. Cosa v’interessa?– Beh, da quel che sappiamo questo edificio è stato progettato da un maestro dell’architettura.– Sì, ma prima di tutto è la nostra casa, la “casa dei lavoratori”. Siete compagni?– Beh, sì… Sostenitori.– Bene, allora potete capire. Vedete queste sedie, questi tavoli, questi muri? Li abbiamo pagati noi, con i nostri soldi, i nostri sacrifici e le nostre lotte. Siamo orgogliosi di questo posto, e il maestro di cui parlate ne ha condiviso con noi lo spirito, regalandoci il progetto.
Place du Colonel Fabien, XIX Arrondissement, cuore di Belleville: un tempo quartiere operaio. Era il 1999 e lavoravo a Parigi. Quel giorno, insieme a un amico, ero lì per visitare la sede del Partito comunista francese (Pcf), stupenda (e poco pubblicata) opera del maestro brasiliano Oscar Niemeyer. Dalla strada l’edificio si scorgeva appena, nascosto da una cortina di platani. In posizione arretrata rispetto al carrefour, a un primo sguardo sembrava negarsi. Una cancellata – non prevista ma imposta in seguito da ragioni di sicurezza – lo separava ulteriormente dal marciapiede, generando una sospensione, uno spazio in attesa. Era una bella domenica di settembre. La città era semideserta, la sede era aperta: si poteva entrare senza troppe questioni. Ci hanno accolto due vecchi camarades con l’aria stanca. Erano lì per tenere aperta la casa del partito. Non per la giornata del patrimonio, come sarebbe successo dieci anni più tardi, ma per attività politica. Per difendere ormai l’indifendibile, ritardando semplicemente – senza poterla impedire – l’inesorabile metamorfosi della loro sede da luogo pulsante della partecipazione e della militanza a monumento desacralizzato dell’architettura contemporanea.
Il passato
La storia di questo edificio – “eroico cantiere dell’Utopia” – inizia nel 1965, quando Niemeyer, costretto, a causa della sua militanza comunista, a lasciare il Brasile, giunge in Francia come esule politico, in fuga dalla neonata dittatura. Nello stesso anno gli viene commissionato, da parte dell’esecutivo del Pcf, uno studio di massima per un nuovo complesso dove concentrare tutte le attività del partito, allora disperse in varie sedi. Gli studi preparatori prenderanno ufficialmente avvio solo nel 1967. Il successivo incarico, affidato allo stesso Niemeyer, vedrà coinvolti Jean Deroche (suo primo collaboratore a Parigi), Paul Chemetov, Luiz Pinho, Jean Prouvé e Jacques Tricot. La realizzazione, i cui costi sono in larga parte sostenuti dai contributi degli attivisti, avverrà in due fasi. Dal cantiere, durato quasi tre lustri (1967-1981), emerge un’opera “eretica” in cui si sintetizzano, in modo irripetibile, «il talento creativo del suo ideatore, il magistero costruttivo dei tecnici e delle maestranze e la passione e l’impegno civile di decine di migliaia di militanti».
La complessa forma del lotto su cui sorge l’edificio, un poligono irregolare in leggera pendenza, viene affrontata da Niemeyer con una strategia progettuale di matrice modernista che interpreta in modo innovativo e non autoreferenziale l’idea dell’oggetto isolato, rifiutando ogni compromesso con l’impianto urbano ottocentesco di origine haussmanniana che caratterizza il contesto. Ne risulta una composizione rigorosa e dinamica, basata sulla linea curva, sulla giustapposizione (due volumi collegati da piani inclinati) e sul contrasto materico (cemento e vetro): il corpo degli uffici – una manica doppia di sei piani a pianta ondulata – fa da fondale alla cupola bianca di cemento sottile, a sezione pseudoparabolica, che copre l’aula congressi a pianta circolare ed emerge parzialmente dal suolo artificiale. Quest’ultimo, raccordando le differenti quote al contorno, funge da copertura del sottostante piano interrato al quale si accede attraverso una fenditura, come in una cripta. L’intercapedine abitabile che si viene a generare costituisce di fatto lo spazio più importante dell’intero complesso, luogo di connessione tra tutte le sue parti. In esso sono dislocati, in un ribaltamento delle gerarchie spaziali, l’ingresso principale, l’accettazione, la biblioteca, il foyer esposizioni, l’aula del Comitato centrale e gli spazi per l’attesa, collegati da percorsi in leggera pendenza. Una rivisitazione originale del principio lecorbusieriano del plan libre, dove la purezza formale viene contaminata dal progetto di suolo e i singoli elementi, non più separabili, concorrono alla definizione di uno spazio ibrido e dinamico.
Alla chiarezza e “semplicità” dell’impianto esterno – la vetrata continua (mur rideau), enorme e raffinato serramento progettato da Prouvé per conferire all’edificio il senso di trasparenza della “casa di vetro”, delinea la sagoma dei prospetti con grande effetto scenografico –, fa da contrappunto una spazialità interna fluida, rivoluzionaria, corporea e fenomenica, che rende la transizione da un luogo all’altro un’esperienza totalizzante.
Il presente
In anni di grandi ubriacature da nuovi formalismi, percorrere quegli spazi è stata una lezione di sobrietà non minimalista, di eleganza ed equilibrio. Dimostrazione della capacità di controllo dell’atto creativo, dell’intuizione e delle moderne tecnologie costruttive, essi incarnano una dimensione visionaria trasformata in materia viva e pulsante, come se il concetto di “uomo nuovo” potesse prendere forma (e acquisire senso) solo attraverso una nuova idea (e una nuova esperienza) dello spazio, a partire dai luoghi dove avrebbe dovuto formarsi la sua coscienza politica. Architettura quindi in quanto simbolo e metafora di un «nuovo modello di società civile ispirato ai principi del progresso, dell’uguaglianza, della solidarietà e della giustizia sociale». E architettura in quanto casa, espressione, testimonianza e racconto di chi la abita.
«Quello che conta non è l’architettura, ma la vita, gli amici e questo mondo ingiusto che dobbiamo cambiare», amava ripetere il maestro brasiliano. Affinità di pensiero con chi, con la propria militanza politica e i propri sacrifici, aveva reso possibile la realizzazione del progetto. Nel suo dare corpo all’utopia prevale la dimensione sociale. Nel contrasto tra l’enfasi sulla “lirica sinuosità delle forme curvilinee” dei resoconti d’architettura e la domesticità dello sguardo dei camarades è racchiusa l’essenza dell’opera.
Il futuro
L’accelerazione della storia determinata dagli eventi del 1989 (quando inizia a calare il sipario sul “Secolo breve”) ha contribuito, come nessun agente fisico sarebbe stato in grado di fare, alla precoce obsolescenza dell’immagine dell’edificio, trasformandolo in testimone di un mondo scomparso solo vent’anni dopo la sua costruzione. Proiettato in una dimensione fantastica, atemporale, in cui la poetica dello spazio si separa dalle sue ragioni fondative e le sue forme, ancora potentemente attuali, si rendono autonome dalla connotazione ideologica che ne aveva influenzato la concezione.
Il suo destino sembra comunque inseparabile dalla vicenda politica: le difficoltà elettorali e finanziarie del Pcf degli ultimi anni hanno infatti imposto la «dismissione parziale e la previsione di una progressiva riconversione funzionale dell’immobile». Condizione che, unita a una mutazione epocale del quadro storico, economico e culturale, rappresenta un ulteriore fattore di problematicità rispetto alla prospettiva della conservazione, della preservazione dell’integrità, nonostante questo “caposaldo della modernità” il 26 marzo 2007 sia stato sottoposto a vincolo.
Il problema è complesso e, come per altre “architetture totemiche” del modernismo, investe questioni di carattere culturale prima ancora che tecnico ed economico; ed impone «la formulazione di nuovi codici interpretativi e di approcci metodologici inediti capaci di misurarsi con le sfide culturali indotte da una società in vertiginosa trasformazione». Trovare una soluzione, nel caso della sede del Pcf, è (anche) un dovere morale.
Dove non diversamente indicato, le citazioni sono tratte da R. Forte, La sede del Partito Comunista Francese a Parigi. La seduzione estetica della linea curva (in «Arkos», n.18, gennaio-marzo 2009)
Immagine di copertina: il serramento esterno (mur rideau) progettato da Jean Prouvé (Foto di Alessandro Corona Piu, 1999)
L’edificio
Sede del Comitato centrale del Partito comunista francese
Localizzazione: Parigi, 19° Arrondissement (2, place du Colonel Fabien – 8, avenue Mathurin Moreau)
Committente: SIPCF (Société Immobilière de la Place du Colonel Fabien)
Progettista: Oscar Niemeyer (con Jean Deroche, Paul Chemetov, Jean-Maur Lyonnet, José Luis Pinho, Jean Prouvé)
Ingegneria: Jacques Tricot, BERIM (Bureau d’études et de recherche pour l’industrie moderne)
Acustica: Albert Giry (consulente tecnico)
Cronologia: 1967-1981
Il progettista
Oscar Niemeyer Soares (1907-2012; foto di Tuca Vieira). Nel 1929 si iscrive alla sezione di architettura dell’Escola nacional de Belas artes di Rio de Janeiro, diretta dal 1930 da Lúcio Costa, che le imprime una forte connotazione modernista. Nel 1936 sarà lo stesso Costa a invitare Niemeyer a far parte del gruppo di progettisti che collaborerà con Le Corbusier all’ideazione del Ministero dell’Educazione e della sanità di Rio, poi realizzato autonomamente dal giovane architetto (1936-43). Nel 1939 Niemeyer collabora con Costa alla realizzazione del padiglione brasiliano all’Esposizione internazionale di New York. Tre anni dopo Juscelino Kubitschek, sindaco di Belo Horizonte, gli commissiona la realizzazione del complesso di Pampulha: il casinò, il club, il dancing (1942) e la cappella di San Francesco (1943) sanciscono il riconoscimento internazionale dell’architetto. Nel 1947 fa parte del gruppo di architetti incaricati della realizzazione della nuova sede delle Nazioni Unite a New York, portata poi a compimento da Wallace Harrison e Max Abramovitz utilizzando i progetti di Le Corbusier e di Niemeyer. L’edificio Copan a San Paolo (1950) declina a grande dimensione le forme libere e le superfici curve che arricchiscono l’impostazione funzionalista dei progetti di Niemeyer. Nel 1950 Stamo Papadaki gli dedica il primo studio monografico: The Work of Oscar Niemeyer. A partire dal 1957 Kubitschek, divenuto presidente della Repubblica brasiliana, gli affida il progetto degli edifici pubblici della nuova capitale Brasilia. Il palazzo dell’Alvorada (1957), ossia la residenza ufficiale del presidente della Repubblica, quello del Planalto (1958-60), sede del Governo, la Corte suprema federale (1958-60), il Congresso nazionale (1958), il palazzo degli archi (Itamaraty, 1962), sede del Ministero degli Esteri, il Ministero della Difesa (1968), oltre alla cattedrale (1959-70), coniugano a scala monumentale l’opzione urbanistica che Niemeyer elabora per la nuova capitale. La notorietà di Niemeyer è assoluta ma dopo il colpo di stato militare del 1964 l’architetto, che non rinnega le proprie convinzioni politiche, trova difficoltà nel continuare la propria attività in Brasile, per cui intraprende frequenti viaggi in Europa, soprattutto a Parigi, dove realizza la sede del Partito comunista francese e la Casa della Cultura a Le Havre (1972-82). In Italia porta a compimento il palazzo uffici Mondadori di Segrate (Milano, 1968-75), la sede della Fata Engineering a Pianezza (torino, 1976-81) e delle officine Burgo a San Mauro Torinese (1975). Un corposo fervore plastico torna a caratterizzare gli ultimi lavori dell’architetto, tornato in Brasile negli anni ottanta, tra i quali la passarela do samba a Rio de Janeiro (1983-84) e il Museo d’arte contemporanea a Niterói (1991-96). Noto per il suo profondo impegno sociale, nel 1988 riceve a Chicago il prestigioso Pritzker Architecture Prize, nel 1996 il Leone d’Oro della Biennale di Venezia. Tra i lavori più recenti figurano il progetto per l’auditorium a Ravello (Salerno, 2000) e il padiglione per il Serpentine Gallery di Hyde Park a Londra (2003).
(da R. Dulio, Niemeyer, la morbidezza del cemento armato, in «Unità», 11 dicembre 2007, p.23)
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Last modified: 4 Maggio 2016