Al RIBA di Londra la mostra “Creation from Catastrophe – how Architecture rebuilds Communities”, con immancabili riferimenti al lavoro di Alejandro Aravena
LONDRA. Recentemente inaugurata all’Architecture Gallery del Royal Institute of British Architects, “Creation from Catastrophe – how Architecture rebuilds Communities“ (fino al 24 aprile) è una mostra con poche pretese che tuttavia inaugura nella capitale la stagione dell’Aravena mania. Per alcuni solo un trend con la stessa longevità di un hashtag su Twitter, per altri la speranza di un cambio di paradigma nella scena architettonica internazionale. Troppo presto per dirlo; tuttavia, dopo la nomina a curatore della prossima Biennale di Venezia e fresco di Pritzker Prize, l’architetto cileno non poteva non figurare nella top list dei protagonisti della mostra curata da Jes Fernie con Stephanie Sutton per il RIBA.
Dai piani urbanistici di Sir Christopher Wren per la ricostruzione post Great Fire del 1666 a Londra, fino al più recente tsunami che ha colpito nel 2011 le coste di Tokelau in Giappone, “Creation from Catastrophe” ripercorre una serie di catastrofi naturali che hanno messo in prima linea il ruolo dell’architetto come attore principale nella ricostruzione della città e di un modello sociale potenzialmente più sostenibile. Protagonista non per la sua abilità progettuale ma per la capacità di comprendere le esigenze e farle dialogare in maniera coerente, rendendole attuabili sul piano economico e finanziario. Come nel caso della città cilena di Constitución, colpita dal terremoto, che ha visto al lavoro lo studio Elemental, capitanato da Aravena, portare avanti un lungo processo di concertazione tra enti locali e comunità, integrando un progetto di protezione passiva della costa con la volontà dei cittadini di reinsediarsi rapidamente, senza dover passare la propria vita in un modulo di emergenza.
L’incipit dell’esposizione è una frase di Toyo Ito: “Una zona disastrata nella quale tutto è perduto ci offre la straordinaria opportunità di avere uno sguardo nuovo, ripartendo da zero, su ciò che l’architettura realmente è”. Ed è proprio con il suo progetto “Home for all” per la ricostruzione post tsunami in Giappone, anch’esso incluso nella rassegna, che il Padiglione giapponese vinse la Biennale di Venezia nel 2012.
Attraverso un percorso cronologico il visitatore comprende come negli anni, per gli architetti, la gestione del post catastrofe si sia trasformata da occasione per risanare zone insalubri e per elaborare piani regolatori sui quali costruire le fondamenta delle città moderne a modello di progettazione partecipata, basato sulle tradizioni, sulle risorse locali e sul ruolo attivo delle comunità coinvolte.
Carte storiche, plastici, disegni, progetti e video fanno capire come mutamenti climatici e catastrofi abbiano riplasmato le città, segnando il tessuto urbano con cicatrici talvolta indelebili. Una presa di coscienza sulla fragilità, tanto fisica quanto etica, dell’architettura, soprattutto laddove gli interessi di mercato, da quello immobiliare a quello della filiera edilizia, hanno prevalso su una progettazione consapevole.
Tra i lavori in mostra, troviamo un altro progettista ora particolarmente in voga: l’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi, fondatore di NLE Architects, recentemente selezionato per disegnare una delle quattro Summer Houses (insieme a Barkow Leibinger, Yona Friedman e Asif Khan) che a Londra in estate affiancheranno il nuovo Serpentine Pavilion 2016, quest’anno affidato a Bjarke Ingels Group. Adeyemi e la sua travagliata proposta per la Floating city a Lagos entrano quindi a far parte dello “Star system impegnato nel sociale”, com’è stato definito dal tagliente Luigi Prestinenza Puglisi.
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alejandro aravena , mostre , territorio fragile
Last modified: 8 Marzo 2016