PISTOIA. Si è da poco conclusa la sesta edizione del Festival dellantropologia contemporanea, dedicata alle Case delluomo. Abitare il mondo. Le cifre snocciolate dagli organizzatori a fine rassegna dicono che, rispetto allanno passato, il pubblico è cresciuto, fino a varcare la soglia dei ventimila biglietti venduti (salvo la lectio inaugurale di Francesco Remotti, tutti gli appuntamenti erano a pagamento), arrivava per circa i tre quarti da fuori Toscana ed era un misto di giovani e adulti di ogni età. Come misti erano gli oratori: antropologi certamente, architetti, urbanisti e designer, ma anche cantanti, attori, calciatori, giornalisti, storici, psichiatri, filosofi, scrittori, un missionario e un astrofisico
Un pot-pourri piuttosto ben assortito ma anche analogo a quello delle altre occasioni festivaliere in giro per la penisola. Alcuni nomi, del resto, ricorrono con tale frequenza dalluna allaltra da indurre al sospetto che o ci troviamo di fronte a una nuova generazione di proteiformi ingegni rinascimentali, oppure siamo al classico specchietto per le allodole: personaggi noti od orecchiati (e non necessariamente competenti) piazzati in vista per attirare la folla.
Non che il numero sia deprecabile: ma la quantità di pernottamenti negli alberghi o di coperti nelle trattorie non misura gli esiti di un evento culturale. Tantè. Pistoia più o meno accanto a Mantova, Lucca, Pordenone, Aliano, Cagliari, Trento, Sarzana, Torino, Modena-Carpi-Sassuolo (scritto così). Pistoia capace d’imbastire una collaborazione pubblico-privato (il sostegno è stato di entrambi, Comune e Fondazione della locale Cassa di risparmio), attivare circa trecento volontari di scuole e università, e far ragionare in pubblico, tra gli altri, Marc Augé, Marida Talamona, Aldo Cibic, Alessandro Mendini e Vinicio Capossela. Con il dubbio, tuttavia, che aldilà di teatro Bolognini, teatro Manzoni e dei tendoni comunque pieni (il più grande installato in faccia al duomo romanico pisano con una scelta forse ovvia ma un po avvilente) leloquio transalpino del primo, impegnato a rivisitare la teoria dei non-luoghi, sia stato meno seducente della conversazione che lultimo ha avuto su mito, origini e racconto. Una volta di più è sembrato che nelluscir dalle accademie il sapere degli accademici perdesse smalto, come per una congenita resistenza alla divulgazione proprio quando si tratta di antropologi, e non compulsatori di archivi, gente dunque con unesperienza del mondo vasta e polemica, maturata attraverso pluriennali ricerche in Africa nera, Medio Oriente e Oceania. Dove i modi dellabitare sono o lo erano (i riferimenti etnografici offerti lasciano il dubbio) anche molto diversi, da quelli che conosciamo a Occidente.
Paese che vai, casa che trovi è la prima lezione di Pistoia; semplice e nota si potrà dire, non fosse che non labbiamo ancora appresa fino in fondo. Il discorso sullabitare, nei suoi fondamentali, resta intriso di etnocentrismo. Come mostrano due facili osservazioni. Uno, la riluttanza ad applicare il termine casa quando non rinveniamo altrove limmagine che ce ne siamo fatti a casa nostra: le costruzioni di fango e materiali vegetali di popolazioni africane sono
capanne (roba da primitivi o, naturalmente, da turisti); quelle sopraelevate su pilotis di legno tipiche di tanto sud-est asiatico sono
palafitte (roba da preistorici o, sempre loro, da turisti). Due, la tendenza a derubricare le tradizioni altre, quelle dove prevale il saper fare che non è passato per programmi al computer e piani urbanistici: ecco le etichette di architettura vernacolare, etno-architettura, architettura indigena, spontanea, minore, popolare, fino alla più temuta (o la più liberatoria, dipende da dove ci si mette a guardare), larchitettura senza architetti.
«Abitare una camera che cosè? chiedeva George Perec in Specie di spazi Quando si sono messe in ammollo tre paia di calzini in un catino di plastica rosa?» Con la versatilità che è loro propria gli antropologi hanno cercato garanzie nelletimologia e nella semiotica: la prima lega labitare ad abito e abitudini, secondo la classica tesi circa il possesso, o almeno la padronanza, dei luoghi; la seconda spiega che chi abita assegna significati allo spazio, e la casa non sempre, non dappertutto risulta il luogo dellintimità (in Polinesia, sullisola di Futuna, a questa sono deputati i giardini e la foresta), e neppure è fissa, individuabile in un punto circoscritto (così, per esempio, per i nomadi della penisola arabica).
In risposta alla medesima domanda gli architetti hanno fatto vedere modelli colorati e molto ben fotografati di soluzioni progettuali per Shanghai o per lentroterra veneto, o hanno raccontato come per Le Corbusier stimolo motore verso la nota machine à habiter sia giunto dalla visita alla certosa di Ema sulle colline fiorentine.
Non si sono sentiti, a Pistoia, antropologi che volessero ispirare la pratica architettonica, e neppure architetti che giocassero allantropologo. Ed è un peccato. Perché il tema molto si prestava allinvasione di campo. Pur accomunati dalle ricerche sulla casa e sullabitare, antropologi e architetti nella buona sostanza si sono ignorati (con cordialità e cortesia, va riconosciuto). Al pari di Bruce Chatwin di un famoso racconto, per un fine settimana hanno trovato nel festival «un posto come un altro per appendere il cappello», e poi rimettersi in un viaggio abbastanza solitario allinterno delle rispettive discipline. Ma anche questo, o forse proprio questo, lha insegnato il nomade inglese, è fare casa.
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