Volatile come la sabbia e precario come i confini dello Stato di Israele, il progetto per il padiglione curato da Ori Scialom, Roy Brand, Keren Yeala-Golan e Edith Kofsky è poetico quanto suggestivo. Sui due piani del padiglione si trovano quattro sabbiere allinterno delle quali altrettante braccia meccaniche velocemente disegnano i contorni di costruzioni, e altrettanto velocemente ne cancellano le tracce, in un ciclo che si ripete. Esse narrano la storia della rapida e controversa pianificazione di Israele degli ultimi cento anni: ad ogni sabbiera corrisponde una scala differente, dai piani urbani allisolato, fino allunità residenziale. Il titolo del padiglione, «Urburb», è un neologismo che fa riferimento allincontro e commistione tra urbano e suburbano, condizione che caratterizza quasi ogni insediamento in Israele. I curatori spiegano come il progetto esprima lidea di vivere in una macchina modernista, sotto i segni dellautomazione e la promessa di una redenzione utopica; non solo, enfatizzano come questi disegni siano impressi dallalto in conformità con le ideologie e i piani che cambiano. Rimane al visitatore la scelta di interpretare il progetto come un disegno divino – forse il codice programmato? – che un braccio umano, o meglio meccanico, realizza, ma che esso stesso distrugge, riedificandolo successivamente sempre uguale. A quali popoli appartengano le braccia non è dato sapere. Rimane il dubbio che volontariamente gli insediamenti palestinesi non siano stati né abbozzati né tantomeno contemplati, in nessun piano urbano e neanche in questo padiglione.
Israele, l’antropizzazione è una traccia sulla sabbia
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