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Written by: Inchieste

Così il Giappone ha resistito al terremoto (ma non allo tsunami)

Tokyo. L’Ufficio calamità naturali del Municipio di Shinjuku, uno dei più popolosi della capitale e sede del governo metropolitano, finanzia tre programmi di prevenzione contro i terremoti: uno affinché i proprietari rinforzino gli edifici costruiti prima del 1981, quando entrò in vigore una più severa legge antisismica; il secondo affinché sostituiscano con siepi vegetali i muri di cinta fronte strada; il terzo affinché stabilizzino i terreni in pendenza. Una squadra di tecnici ad hoc assiste i privati.
Queste misure, previste dalle attuali leggi, hanno una storia che risale alla seconda metà dell’Ottocento ed è andata di pari passo con la celere modernizzazione del paese e i risultati della ricerca antisismica. Le prime direttive nazionali in materia sono del 1894, tre anni dopo il sisma di Nobi, emanate da un apposito Comitato imperiale d’indagine. Prescrivevano forme specifiche per l’intelaiatura in legno delle case e raccomandavano l’uso di giunti in acciaio. Con il grande terremoto del Kantÿ del 1923 (oltre centomila morti e duecentomila edifici distrutti) è in questo materiale che viene individuata la migliore resistenza ai sismi, mentre viene abbandonato il mattone introdotto nel paese solo pochi decenni prima. È anche il via libera al cemento armato, almeno per gli edifici a più piani. La legislazione viene ulteriormente adeguata nel 1950, con una legge quadro che fissa gli standard, aggiornata nel 1981 e, a più riprese, tra il 1998 e il 2006 con il calcolo della performance dell’edificio sottoposto a sollecitazioni estreme e l’imposizione di criteri per l’assorbimento di energia da parte delle strutture (il cosiddetto effetto spugna).
Oggi il legno resta il materiale principe per le residenze private di modeste dimensioni, sia nelle campagne sia nelle metropoli. Per edifici di maggiore impegno si spazia dal cemento armato alle strutture in acciaio ad alta elasticità con dispositivi come l’isolamento dal suolo con cuscinetti in gomma (di cui sono già provvisti oltre 2.500 fabbricati recenti nonché la ristrutturata stazione di Tokyo), guaine in fibra di carbonio sui pilastri, dissipatori tra i piani, architravi mobili per porte e finestre e vetri anti-frattura. La tecnologia antisismica imposta per legge varia secondo tabelle di rischio calibrate per ciascuna provincia (con Shizuoka in testa e Okinawa in coda). Specifici immobili sono poi soggetti all’obbligo di assicurazione contro i terremoti, con premi in parte coperti dall’intervento statale e detassati se vi è utilità pubblica. Un apposito fascicolo catastale registra le tecnologie adottate contro le catastrofi.
È grazie a queste misure che il terremoto dell’11 marzo scorso a Tokyo (dove, per inciso, quaranta edifici superano i 180 m di altezza) non ha causato nemmeno un crollo completo, sebbene non siano mancate cadute di soffitti, rottura di tubazioni e crepe. Nella baia di fronte alla capitale, tuttavia, ricorda Hidenobu Jinnai, docente di architettura all’Università Hÿsei, «i terreni sottratti al mare nel dopoguerra con opere di riempimento si sono innalzati e hanno cominciato a galleggiare». Ed è nel rapporto con il mare e con lo tsunami, piuttosto che con il sisma che lo ha preceduto, che il paese si è trovato vulnerabile. Ed è portato ora a riflettere sulla tipologia degli insediamenti, la voracità fondiaria che li caratterizza e sulla densità di una popolazione ammassata nei fondovalle, nelle scarse pianure e, appunto, lungo le coste. Questo è il punto dolente: in un arcipelago con una superficie paragonabile a quella della penisola italiana, e non meno montuoso, vive il doppio degli abitanti.
L’unica misura che garantisca scampo da uno tsunami, afferma un manualetto di produzione accademica, è la fuga. Oppure un ripensamento complessivo della presenza umana sul territorio: costruire in altura, sovradimensionare le fondamenta di edifici e dighe di protezione, insediare boschi lungo i litorali non per fermare l’onda ma almeno frangerla e rallentare la corsa di battelli sottratti all’ancora e case sradicate.

Autore

  • Luigi Urru

    Trentott’anni o giù di lì, portati bene – quando ne aveva quattro lo morde un cane – a 15 è in esplorazione ipogea con un gruppo di speleologi – viaggia in Scozia, e si perde tra i fiordi – padre sardo, coriaceo: lo vuole avvocato – madre piemontese, cattolica: lo vuole ingegnere – lui s’iscrive a Lettere: latino e greco; poi anche ad Architettura – passa il tempo, scrive per giornali, studia il tedesco – è a Londra per cose dell’Asia orientale – legge Joyce – s’innamora – pendolarismo Islington-Prenzlauerberg – lei entra in clinica psichiatrica, lui no – torna in Italia – legge Gadda – porta una ragazza a Parigi, che non gliela dà – di mattina s’alza ch’è buio per disegnare ideogrammi – va in Giappone e ci resta un bel po’ – impara a memoria l’Ipersonetto – finisce il dottorato: e adesso che si fa? – un’italiana lo invita a prendere un tè e lui ci casca – fa yoga – pubblica un libro su Tokyo: bel libro, gli dicono – il tempo passa ancora – trova una bicicletta in cantina e si mette a pedalare – sopravvive allo tsunami e alle radiazioni di Fukushima – saggi, giornali, conferenze – legge Proust, visita giardini, sarà presto in Cina (e di nuovo in Giappone) – È andata così, per ora

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Last modified: 10 Luglio 2015