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Carlo OlmoWritten by: Forum

Università: addio Camelot

Tornare a ragionare sulla legge Gelmini può sembrare un paradosso, e oggi è quasi impossibile. La legge contiene, quasi come il famoso cane giallo protagonista del giallo di Georges Simenon, enigmi che solo i quasi cento decreti delegati consentiranno di decifrare.
Forse l’unica riflessione che oggi è possibile portare avanti è sulla narrazione che si è strutturata nei due anni di dibattito e sulle sue fondamentali strutture retoriche. A iniziare da quella fondamentale amico-nemico.
Dal ministro, la legge è stata raccontata (i tempi di costruzione del racconto sarebbero interessanti) come una guerra santa contro i baroni universitari. Gli oppositori, all’inizio pochi e flebili, hanno invece costruito il loro racconto sulla resistenza contro un privato che stava per impadronirsi dell’incontaminato castello di Camelot. Per ora la legge, combinata con altri provvedimenti, attribuisce in realtà più potere ai baroni, «decimati», mentre il privato prende le sembianze della nomina politica nei consigli di amministrazione. E l’esperienza della Sanità non è certo consolatoria.
La seconda figura è quella del riscatto e della perdita.
La legge, nel racconto del ministro, diventa una crociata contro un’occupazione sistematica della Terra Santa dell’ecclesia universitaria dai muslims accademici, che avevano seminato loro manipoli di infedeli in ogni più riposto angolo dell’Italia. Per chi vi si è opposto, la perdita era quella della ricerca, come riscatto di un paese in cui i barbari prendevano sempre più le forme dei protagonisti della cultura di massa, della società della comunicazione.
A unire le due retoriche sono stati ragionamenti tutti quantitativi. Gerusalemme sarebbe stata liberata da un algoritmo fondativo di una nuova morale – chissà cosa ne penserebbe Torquato Tasso -, quello dei requisiti minimi. La misura della civiltà italiana era, invece, fondata sulla percentuale del Pil investito in ricerca e formazione. Il sospetto, che il cane giallo di Simenon forse non avrebbe impiegato due pagine a scoprire, è la falsa coscienza che anima queste retoriche.
La terza figura retorica è quella dello spreco e della cecità.
Nel corso dei due anni, l’Università è diventata, nella narrazione ministeriale, sinonimo di Sodoma e, come nel racconto biblico, non sono stati trovati neanche dieci saggi per cui valesse la pena risparmiarne la condanna. La metafora biblica prenderà via via corpo, sino ad arrivare alla messa alla berlina dei costumi degli abitanti della moderna Sodoma, la cittadella universitaria, colpevoli, in una società che si dipinge come monastica, di familismo, tradimenti, dissolutezze. Lo spreco, che negli anni settanta fu un cavallo di battaglia della contestazione universitaria, viene ribaltato nel teatrino delle marionette di un’opposizione che si risveglia quando il passaggio della legge viene dipinto quasi come quello del Mar Rosso, nella cecità di chi pensa che una società in crisi possa trovar le vie d’uscita dal deserto in cui si è cacciata dimezzando gli investimenti in quelle che si accettano di chiamare «risorse umane», ribadendo che un movimento politico, comunque lo si voglia raccontare, che non sa dare nomi alle «cose» è destinato a soccombere.
Ma le figure che dovrebbero essere almeno accennate sono altre. Tuttavia, come in ogni narrazione, senza protagonisti e cori quest’abbozzo di analisi di una narrazione non avrebbe senso. Chi sono gli eroi e gli antieroi di questo racconto? Anche qui è possibile, con le licenze concesse a chi racconta questa misera epopea, accennarli per coppie antinomiche.
Gli universitari e i parlamentari. La mancanza di una profonda autocritica, e l’avvio di best practices dai corsi decentrati ai concorsi in atto, ha reso quasi indifendibile il castello di Camelot. La trasmissione televisiva dei dibattiti parlamentari ha, d’altro canto, evidenziato una profonda ignoranza non tanto delle questioni tecniche di cui si dibatteva, ma dei fondamenti costituzionali e politici di un sistema che deve formare le élites allargate di una società moderna. Con le ancor più evidenti eccezioni, universitari e parlamentari sembravano protagonisti di un film dei Blues Brothers.
La stampa quotidiana e le riviste scientifiche. Sulla stampa quotidiana sono comparsi i primi dubbi, sia sui luoghi comuni cui si dava corpo che sullo scandalismo come metodo di inchiesta giornalistica, solo quando la discussione è diventata uno schieramento. Anche in questo caso l’uso ripetitivo e ossessivo di alcune parole sembrava, come per un karma, assolvere da ogni dovere informativo. Basti pensare all’uso del termine «cricca». Le riviste specializzate, il rifugio di un pensiero critico – o almeno così esse si raccontano -, hanno seguito questa narrazione di quasi due anni con interventi sporadici, anch’essi spesso fondati sulla propria esperienza, non su un’indagine scientifica, come forse ci si sarebbe aspettati. È sufficiente andar a leggere la capacità e la rapidità nel trovare il nemico, e la conseguente assoluzione, il mitico 3+2, senza neanche domandarsi se il problema non fosse, magari, la sua quasi totale mancanza di applicazione.
I privati e le burocrazie pubbliche. I privati, Confindustria, come le singole associazioni di settore, categoria, persino di organizzazione del consenso – dai club ai Rotary – non hanno neanche mai avviato una riflessione critica sull’assenza di investimenti privati nella formazione o, forse ancor peggio, sulla totale insensibilità persino nei riguardi dei rari tentativi di cambiare che l’Università aveva portato avanti. Basti pensare al destino davvero masochista riservato ai dottori di ricerca nell’impresa come nel pubblico impiego. Le burocrazie sono rimaste, come quasi sempre accade in Italia, mute. Da quelle preposte ai controlli a quelle che dovranno dar attuazione alla legge, aspettano i decreti delegati, terreno autentico di ridefinizione dei poteri. Comunque nessuno si è preoccupato neanche di suggerire che, forse, per dar corso anche a una buona legge, occorre in primis riformare chi è addetto alla sua attuazione e al controllo, parola questa che fa, pariteticamente, «venire l’orticaria» ai decisori politici e agli accademici.
Certo questa è solo una narrazione i cui antieroi rimangano nell’ombra, dai rari accademici che hanno richiesto una profonda autocritica e
l’hanno avviata, agli studenti che hanno cominciato a dibattere del rapporto che esiste tra la loro formazione e quali prospettive di vita, e non solo di lavoro, e di comprensione della realtà, e non solo di reddito, si aprono per loro, sino alle voci, davvero roche, che hanno provato a mettere in discussione la natura quantitativa e astratta delle argomentazioni: astratta soprattutto da un mercato del lavoro che, lungi dall’essere il sognato e mistico luogo dell’incontro tra domanda e offerta di formazione, è in mano a oligarchie, ovviamente conservatrici e nemiche di qualsiasi forma di innovazione. All’estero si va perché questa è la Ramallah in cui si piomba, quando si finiscono gli studi universitari.
La narrazione tuttavia non è finita, le maschere possono cadere e la struttura di un racconto, che è davvero quello di una commedia dell’arte, cambiare. È sufficiente che al posto dell’algoritmo che solleva tutti dalla responsabilità, si accetti che responsabilità e valutazione diventino le regole ferree di un nuovo, più consolatorio, racconto. Ma questo ha il suo incipit obbligato in chi nell’Università lavora e studia, perché la cultura delle rendite è davvero quella dominante, nella politica come nelle professioni, non solo nell’Università, e chi vuole cambiare, anche solo per disperazione proprio come a Ramallah, deve sovvertire le proprie regole di vita quotidiana.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 13 Luglio 2015