Il punto di vista dell’ex direttore del Canadian Centre for Architecture e membro dell’International Confederation of Architectural Museums
La reazione del mondo culturale brasiliano alla decisione di Paulo Mendes da Rocha di destinare il suo archivio alla Casa da Arquitetura de Matosinhos in Portogallo riporta in primo piano il tema del ruolo e della fragilità degli archivi, in particolare quelli degli architetti contemporanei. Il ruolo pionieristico di ICAM (International Confederation of Architectural Museums), ICA-SAR (International Council on Archives-Section on Architectural Records) e, in Italia, di AAA Italia (Associazione Archivi di Architettura), ha dato un contributo straordinario alla creazione di una rete d’istituzioni e alla crescita di nuove professionalità, consentendo la disponibilità di fonti inedite per la ricerca. Oggi quella spinta progressista e quelle energie straordinarie sembrano affievolite, ed è evidente la condizione di crisi che le istituzioni culturali vivono per il sempre minor interesse della politica a sostenere la cultura. È dunque auspicabile avviare una riflessione sul futuro degli archivi di architettura chiamando in causa voci autorevoli che ci aiutino a comprendere un quadro in così rapida trasformazione.
Partiamo dal Portogallo e dalla scelta di Álvaro Siza Vieira di destinare il proprio archivio a tre istituzioni: la Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona, il Museo Serralves di Porto e il Canadian Centre for Architecture di Montréal (CCA). Abbiamo per questo invitato Mirko Zardini [nella foto di copertina, Matthieu Brouillard © CCA], fino ad un anno fa direttore del CCA e per molti anni membro del consiglio scientifico dell’ICAM, a parlarci di un progetto culturale che conosce bene per aver seguito i primi passi della scelta di Siza.
Com’è maturata la scelta di Siza sul futuro del suo archivio?
Dobbiamo premettere che i casi di Siza e Mendes da Rocha sono molto diversi nelle finalità e nei processi che hanno attivato. Credo sia importante per inquadrare il tema richiamare alcuni problemi. Il primo consiste nel definire il legame degli archivi con un luogo fisico. Nell’ultimo secolo la tensione tra culture locali e cultura internazionale ha molto complicato la questione. Dobbiamo chiederci quanto l’archivio appartenga al contesto fisico che li ha visti crescere e quanto invece a quella cultura internazionale di cui il progetto fa parte, in cui quel progetto è cresciuto e a cui quel progetto contribuisce. Il secondo aspetto riguarda il tema della conservazione dell’archivio, che è una componente sempre necessaria, ma non certo sufficiente. Dobbiamo sempre più prendere in considerazione come la collocazione dell’archivio possa essere produttiva. Che cosa significa essere produttivi? A questo punto vorrei entrare nel merito della scelta di Siza di dividere il suo archivio tra tre istituzioni, suggerita dall’intenzione di rendere il suo lavoro un motore per riattivare un dibattito sull’architettura in Portogallo e a livello internazionale, collegando le due realtà. Cito qui a memoria le sue parole: «L’idea di donare l’archivio alle tre istituzioni nasce dal desiderio che molti anni del mio lavoro possano diventare utili in diverse maniere come un contributo alla ricerca e al dibattito sull’architettura, in modo particolare in Portogallo, e in una prospettiva che si oppone all’idea d’isolamento». Vorrei anche sottolineare che la decisione di come suddividere l’archivio è stata fatta da Siza stesso, stabilendo quali progetti sarebbero andati al museo Serralves, quali al Gulbenkian e quali al CCA.
Come si è articolato il progetto di collaborazione tra le tre istituzioni?
Nonostante le tre istituzioni facciano riferimento agli stessi standard internazionali di conservazione, catalogazione e classificazione dell’archivio, emergono dei problemi molto interessanti, ad esempio per quanto riguarda la descrizione dei progetti, che è legata alle diverse lingue e pratiche delle istituzioni, e rispetto alle modalità di digitalizzazione del materiale. Credo che le tre istituzioni stiano sviluppando un lavoro molto importante nel tentativo di arrivare a soluzioni condivise che poi potranno essere rese accessibili a tutti. Inoltre, la scelta di Siza è stata molto importante perché ha riattivato la politica di acquisizione di archivi di architettura da parte del Gulbenkian e ha spinto il Serralves ad ampliare il suo interesse nel settore degli archivi, aprendolo all’architettura. Il museo Serralves ha sviluppato anche un nuovo programma sull’architettura, che comprende ad esempio seminari e mostre (su Siza, ma anche sull’esperienza abitativa SAAL – Serviço Ambulatório de Apoio Local). Nello stesso tempo la collaborazione tra il Serralves e il CCA ha prodotto una nuova mostra sull’archivio di Gordon Matta-Clark, mentre la mostra del CCA “Beside History” è stata presentata anche al Serralves. Per il CCA è stato molto importante promuovere il lavoro di Siza in Nordamerica, non soltanto per il ruolo da lui svolto nel campo dell’abitare e per la sua attenzione verso gli abitanti (in Canada sono state presentate due mostre come “The SAAL Process: Housing in Portugal 1974-76” e “Corner, Block, Neighbourhood, Cities: Alvaro Siza in Berlin and The Hague”), ma anche per la sua idea di architettura. Quando, ad esempio, Siza ha presentato il suo progetto di ricostruzione del quartiere Chiado di Lisbona in una conferenza all’Università di Toronto, ha sottolineato come il suo obiettivo fosse stato quello di non lasciare traccia di sé come architetto. Un messaggio di questo tipo nel contesto nordamericano, in cui l’idea di autorialità è ancora preponderante, è davvero rivoluzionario.
Com’è cambiato il quadro dei musei e dei centri di architettura negli ultimi anni, e quali sono le prospettive per assicurare al patrimonio archivistico un ruolo strategico?
Credo che i musei, i centri e gli archivi di architettura non abbiano ancora sviluppato in questi anni quella riflessione che, ad esempio, le biblioteche hanno portato avanti. Vorrei fare riferimento in particolare al Nordamerica e al lavoro di David Lankes. Egli osserva che l’enfasi non deve essere più posta solo sulla collezione e sull’oggetto materiale, ma sulla conoscenza e sulla creazione di conoscenza. Quindi non è solo importante quello che si ha ma è soprattutto quello che si fa con il materiale di cui diventiamo custodi e responsabili.
Qual è il suo giudizio sulla politica di ICAM?
Si può leggere la storia di ICAM come un grande successo, o un grande insuccesso. Un successo perché quando è stata fondata nel 1979 comprendeva 25 istituzioni provenienti da 15 paesi diversi in Europa e Nordamerica, mentre oggi ne fanno parte 95 istituzioni da 33 paesi, con presenze che comprendono Asia e Australia. Tuttavia, dopo il momento eroico iniziale, con il riconoscimento ai musei e centri di architettura di uno status equivalente a quello degli altri musei, e la creazione di pratiche archivistiche condivise, non mi sembra che oggi l’ICAM stia sviluppando una riflessione sul ruolo delle istituzioni nel nuovo contesto in cui ci troviamo ad operare, né stia affrontando in maniera adeguata il tema degli archivi digitali. Sarebbe inoltre auspicabile stabilire un rapporto più solido e continuo con altre associazioni e organizzazioni, come ICA e AAO (Association of Architecture Organizations), per avviare una riflessione comune su tali problemi. Sono stato membro del board dell’ICAM per qualche anno e mi dispiace non essere riuscito a raggiungere questi obiettivi.
Come giudica la politica degli archivi di architettura in Italia?
Il caso italiano ha nella AAA Italia un’istituzione fondamentale che ha creato una rete di contatti importante. L’obiettivo è che questa rete sia in grado di produrre più di quanto non facciano le singole istituzioni. Sono necessari dei progetti comuni o anche la condivisione di archivi per mettere in atto processi di collaborazione che, come nel caso di Siza, possono portare a risultati inaspettati. Nel caso italiano, in cui sono presenti molti archivi legati a singole personalità, credo che il discorso della rete sia fondamentale anche per condividere gli alti costi di gestione e ottimizzare l’uso delle risorse. È però preoccupante la scarsa considerazione che viene data oggi in Italia agli archivi e alle biblioteche, sia per quanto riguarda l’aspetto della conservazione, sia, soprattutto, per quanto riguarda la necessità di renderli parte attiva nella diffusione della conoscenza. Sarebbe utile concepire biblioteche, musei, centri e archivi di architettura in maniera congiunta, e non come elementi isolati, e nello stesso tempo sviluppare un nuovo e diverso discorso sull’architettura, ponendo al centro della riflessione temi come quelli dell’abitare, della tecnologia, della giustizia sociale, dell’ambiente. Alla fine l’architettura è un modo di guardare alla nostra società, e la società un modo di guardare all’architettura.
Chi è Mirko Zardini
Architetto, autore e curatore, ha privilegiato nelle sue ricerche i temi della città, del paesaggio, dell’ambiente. Le sue mostre e pubblicazioni vanno da “Asfalto” (2003) a “It’s All Happening So Fast” (2016), una riflessione sui nostri contrastanti rapporti con l’ambiente. È stato redattore di “Casabella” (1983-88) e “Lotus International” (1988-99), e ha insegnato presso diverse scuole di architettura, tra cui le Università di Harvard e Princeton, il Politecnico di Zurigo (ETH) e quello di Losanna (EPFL). Dal 2005 al 2019 è stato direttore del Canadian Centre for Architecture a Montréal dove ha affrontato, attraverso ricerche e mostre, i temi sociali, politici e ambientali contemporanei, sviluppato una nuova strategia digitale per il centro, e creato una nuova rete di collaborazioni con altre istituzioni. Dal 2011 al 2019 è stato membro del Comitato esecutivo dell’ICAM (International Confederation of Architectural Museums).
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archivi
Last modified: 9 Dicembre 2020