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Francesca PetrettoWritten by: Città e Territorio

Ritratti di città. Wolfsburg, o della Volkswagen

La città tedesca dell’auto compie 82 anni, segnati dalla continua crescita all’insegna dello sviluppo produttivo; ma è alla disperata ricerca di un’identità urbana

 

Una simbiosi più tenace della storia

Sul modello delle città mussoliniane, anche in Germania sorsero negli anni del III Reich alcuni centri di fondazione nazista: il più famoso è Wolfsburg, il cui nome sarà sempre legato a doppio filo al leggendario marchio Volkswagen. L’odierna Stadtlandschaft (città-paesaggio) in Bassa-Sassonia vive col suo ingombrante, recentissimo passato condiviso, un rapporto di odio-amore. La mastodontica fabbrica di Adolf Hitler e Ferdinand Porsche che ne chiude a nord il perimetro come una cortina invalicabile è il Moloch che da sempre chiede vite in cambio di ricchezza: tutto gli è stato sacrificato – cultura, persone, bellezza – e contro i suoi idolatri, che si sono inventati negli ultimi 20 anni il turismo dei motori, poco o niente hanno potuto illustri urbanisti accorsi in città negli anni del boom economico tedesco. Perché Wolfsburg è un non-luogo che vanta alcune opere di archistar completamente slegate l’una dall’altra; è un centro abitato senza centro e senza identità urbana; è da sempre la città-dormitorio che cerca disperatamente una legittimazione spaziale e culturale. Questo ritratto di città non può esimersi dall’essere come lei “satellitare”, seguendo il fil rouge episodico di 80 anni di atti, tentativi e fallimenti progettuali marcatamente politici.

 

Inizi fascisti: Hitler, Porsche e il Koller-Plan

Ferdinand Porsche sta a Volkswagen come Hitler sta a Wolfsburg. I due hanno un piano comune: creare un’utilitaria tedesca (il Maggiolino si chiamava in origine KdF-Wagen) e fondare un’intera città tutta in sua funzione, modelli esemplari di efficienza nazista agli occhi del mondo. Porsche è il geniale designer senza scrupoli che senza l’appoggio del dittatore non potrebbe mai realizzare il sogno di produrre auto non solo di lusso, e il dittatore di scarso talento artistico ha vitale bisogno di cervelli come lui per realizzare i suoi sogni di megalomania. La leggenda diventa storia l’1 luglio 1938, due mesi dopo la posa della prima pietra dell’enorme stabilimento in presenza del Führer.

La sua nuova «struttura didattica per l’architettura urbana e l’insediamento sociale» nasce col nome di «Città dell’Auto-KdF nei pressi di Fallersleben», semplicemente dall’unione di alcuni borghi del circondario fra cui è anche l’antico castello di Wolfsburg: la vuole priva di chiese ed esclusivamente funzionale alle attività della fabbrica, con Siedlungen in “stile patrio” per i lavoratori e una sorta di cittadella del potere sul colle di Klieversberg. Le direttive sono troppo generiche e grondano la solita retorica: Albert Speer, incaricato di supervisionare il progetto, chiama il giovane collega austriaco Peter Koller affidandogli la pianificazione di una città di circa 90.000 abitanti. Il piano urbano che questi sviluppa (Koller-Plan) vuole la costruzione di una Stadtlandschaft di Siedlungen e vaste aree forestali a sud del canale navigabile Mittelland e attorno all’asse verticale della neonata Porschestraße che unisce lo stabilimento VW nell’area pianeggiante a nord del canale al punto più alto di Klieversberg, sull’estrema pendice meridionale. Il giovane architetto ha in mente il principio di divisione delle tre attività (lavoro, residenza e svago) della Carta di Atene (1933) e pensa a una città i cui quartieri immersi nella natura sorgano distanti dai fumi mefitici della fabbrica, mentre per Klieversberg vuole una Stadtkrone alla Bruno Taut. Ma non riesce a realizzare che pochi blocchi di alloggi a due-tre piani, da tetto e facciate simil-tirolesi per una vaghezza anti-bolscevica di Heimatstil, che vengono sbrigativamente affiancati da povere baracche per i deportati prelevati dai lager più vicini. La fabbrica produce da subito pezzi di panzer e mezzi di trasporto per la Wehrmacht, non l’utilitaria promessa al popolo tedesco.

Porsche non è solo il designer della piccola utilitaria, ma anche il vero e proprio cervello del complesso Volkswagen, che vuole più imponente di quello Ford a River Rouge, Detroit, visitato personalmente a più riprese: 1.300 metri misura il fronte dell’immenso corpo di fabbrica che, rettilineo, segue il corso del canale e dei binari sul lato città.

 

Il dopoguerra: miseria, immigrazione, boom e… un triplo Aalto

Nonostante i bombardamenti alleati ne distruggano gran parte, la fabbrica VW non viene smantellata, bensì occupata dalle truppe inglesi che se ne servono per produrre mezzi di trasporto per l’esercito britannico. L’embrio-città di Koller è ridotta a una landa di macerie e baracche: gran parte della nuova popolazione della Città-KdF, cui viene riconosciuto il nome di Wolfsburg, a partire dal 25 maggio 1945, ha un’età inferiore ai 12 anni.

Con la divisione delle Germanie, in molti fuggono in extremis verso un ovest di cui la città della VW è qui avamposto, a ridosso del confine con la nuova DDR. Negli anni 1949-55 la popolazione di Wolfsburg passa da 15.000 a 44.000 abitanti: le catapecchie vengono demolite per costruire in loro vece nuovi alloggi, in linea col Koller-Plan, con uno stile che difficilmente le differenzia dalle coeve nel blocco comunista, “funzionalismo” è la parola d’ordine del tempo della rinascita.

La più importante rivoluzione dal punto di vista urbanistico è messa in atto dal nuovo uomo incaricato di ricostruire Wolfsburg: Hans Bernard Reichow, già pupillo e collaboratore a più riprese di Erich Mendelsohn decide di ruotare l’asse cittadino di 90°: dalla verticale Porschestraße a una perpendicolare est-ovest parallela al corso del canale. Il nuovo Reichow-Plan, ideato nel senso della neonata prassi dell’organische stadtbaukunst (architettura urbana organica), rompe intenzionalmente con la vecchia impostazione, attraverso un sistema organico di strade ed edifici, una sorta di apparato circolatorio urbano senza gerarchie in cui tutti i cittadini hanno pari importanza. Tuttavia, negli stessi anni torna a governare a Wolfsburg un partito di destra e Reichow, ostacolato da un Koller ancora molto attivo in città, riesce a realizzare solo due delle sue nuove Siedlungen. La planimetria di Wolfsburg rimane un caos, l’alzato è quel conglomerato eterogeneo di edifici sparsi e verde ancora oggi dominante.

L’etica architettonica di Alvar Aalto sembra perfetta per la nuova Stadtlandschaft Wolfsburg, che anela diventare molto più che un insieme di Siedlungen per le famiglie operaie: l’architetto finlandese arriva nel 1958, già all’apice della popolarità, e vi costruisce in diverse fasi, nell’arco di un decennio, tre importanti edifici: la Kulturhaus, il Gemenindezentrum Heilig-Geist, la Stephanuskirche. Con la costruzione della Kulturhaus, Wolfsburg si sente per la prima volta “città con un centro” (stadtmitte), ma è solo un episodio isolato e bisognerà aspettare almeno il 1994 perché le venga costruito accanto il Kunstmuseum di Peter Schweger.

 

Tra Maggiolino e architetti di fama

Negli anni ’60-’70 Wolfsburg vorrebbe cambiare volto e marcia, ma la dinastia Koller torna a più riprese ad intralciarne ogni velleità di modernità, costruendo ancora diverse Siedlungen in zone tutt’altro che periferiche. Ovunque come funghi sorgono nuove chiese (con l’arrivo di Gerhard Langmaack), secondo un trend impostosi nel periodo in tutta la Germania Ovest. La VW diventa il simbolo del nuovo miracolo economico tedesco che moltissimo deve agli operai italiani. Il noto architetto berlinese Paul Baumgarten viene incaricato dalla VW stessa della costruzione di diversi edifici per le famiglie dei lavoratori: il colosso investe e spende, riconoscente, per la sua città. È suo il piano per la Trabantenstadt Detmerode (1961-1970), la città-satellite su modello Bauhaus in cui Wolfsburg può realizzare un’urbanità che pare altrove impossibile, prendendosi cura degli interessi di tutte le fasce di popolazione, creando un «quartiere signorile alla portata di tutti».

Anche un già acclamato Hans Scharoun arriva in città negli anni delle proteste studentesche, quando Wolfsburg vive importanti trasformazioni urbane e raggiunge il suo massimo demografico: 131.000 abitanti. Le mancano i luoghi per l’arte e la cultura: la comunità chiede un teatro e altri luoghi per il sapere e per l’arte, meritoria una volta per tutte del titolo di città moderna, svincolata dallo status storico di centro operaio. Scharoun vince nel 1965 il concorso per la costruzione del teatro a Klieversberg (terminato nel 1972), davanti ad altri sette architetti di fama mondiale, fra cui Aalto e Jørn Utzon.

L’oggi famosa «Autostadt» VW (città dell’auto) è una cittadella super-tecnologica con paesaggio lagunare a nord del Mittelandkanal, a destra della gigantesca fabbrica, affacciata sull’ansa artificiale creata all’uopo a ridosso della sua iconica torre est a quattro torri: contiene i padiglioni dei vari marchi VW e nasce come progetto satellite per l’Expo 2000 di Hannover. L’architetto di Dresda Gunter Henn ne sviluppa il concept a quattro mani col Gruppo VW, dando vita a un parco divertimenti di 25 ettari per gli amanti dei motori, capace di attirare a Wolfsburg circa due milioni di visitatori l’anno. Contiene diversi edifici fra cui il Konzernforum, i padiglioni dei grandi partner VW, la Zeit-Haus, il centro clienti, ristoranti, bar e hotel di lusso e il Cirque nouveau, ed è collegata alla città dallo Stadtbrücke. Ancora un satellite ad accrescere la dispersione cronica di Wolfsburg e a confermarne lo status di ente vassallo dell’impero dell’automobile tedesca.

Un ultimo cenno merita lo spettacolare intervento urbano di Zaha Hadid nella desolazione planimetrica di Wolfsburg. Nella letteratura di riferimento il suo Phæno Science Center (1999-2005) viene presentato come “il geniale, fluido edificio-museo che dialoga con la fabbrica VW” oltre il canale, offrendo sguardi, scorci e diversi percorsi e passaggi per scoprirla; ma la rottura col contesto concepita dall’architetta anglo-irachena non potrebbe essere più palese: Phæno è in realtà un nuovo, alternativo centro-città decentrato, un nuovo punto di riferimento, un satellite di scienza e tecnica che si sente legittimato a non parlare affatto con il contorno, soprattutto con chi cerca di sovrastarlo di là dal canale, baluardo autosufficiente del sapere.

 

Cerco un centro di gravità permanente

Wolfsburg ha appena compiuto 82 anni: otto decenni di dinamismo e continua crescita all’insegna dello sviluppo produttivo; ma è un sistema planetario ancora privo del suo sole. Il dibattito sulla necessità di dotarla di un centro è tornato vivo negli ultimi anni, e si è pensato nuovamente di recuperare lo storico asse della Porschestrasse di Peter Koller, rendendolo zona pedonale galleggiante sopra un enorme parcheggio dalle cui uscite su scale mobili si raggiungono agevolmente in superficie i principali nodi cittadini. «Cultura», «Acquisti», «Scoperta e salvaguardia» sono le nuove tre definizioni chiave che vanno a sostituire quelle originali della Carta di Atene nel nuovo masterplan redatto dallo studio berlinese ST raum a. insieme ai colleghi O.M. Architekten di Braunschweig. Il polo nord a ridosso della stazione di epoca fascista rimane da sviluppare, un po’ disperso tra anonime gallerie acquisti e le tensioni messe in gioco dall’astronave parcheggiata a terra del Phæno. Il satellitismo cronico che connota la planimetria dell’odierna, politecnica e verde Stadtlandschaft Wolfsburg impone soluzioni critiche una volta per tutte in grado di offrirle quel centro di gravità permanente di cui da sempre ha bisogno. Visitarla è complesso e spaesante e richiede forse conoscenze pregresse, ma merita una tappa anche da parte di chi non necessariamente ha la passione dei motori.

 

Un po’ di storia

1933: poche settimane dopo la nomina a Cancelliere, Hitler annuncia in febbraio al Salone dell’auto di Francoforte-IAA il suo piano di motorizzazione popolare, promettendo a breve la produzione di un’utilitaria destinata al popolo tedesco.

1934: in estate Hitler commissiona a Ferdinand Porsche la progettazione della KdF-Auto (Kraft durch Freude: forza attraverso la gioia), il futuro Maggiolino-VW, che prende il nome dall’omonima organizzazione nazista per le attività ricreative. Nello stesso anno Porsche scrive in un opuscolo che “una Volkswagen non deve essere adatta solo come autovettura, ma anche come furgone per consegne e determinati scopi militari”.

1935: a dicembre Hitler (privo della patente di guida) approva personalmente il prototipo di Porsche.

1937: il capo del Fronte del lavoro tedesco (DAF) riceve l’ordine di avviare la produzione della KdF-Auto. Come anticipato da Porsche tre anni prima, le vetture vengono messe al servizio della Wehrmacht anziché della popolazione. Alla fine dell’anno la Gesellschaft zur Vorbereitung des Deutschen Volkswagens (GEZUVOR) commissiona all’architetto Peter Koller la progettazione e la costruzione di una città di 90.000 abitanti, che porta il nome temporaneo di «Città dell’Auto-KdF nei pressi di Fallersleben» e funge da modello per altre misure di sviluppo urbano del Reich.

1938: a maggio viene celebrata posata la prima pietra dello stabilimento VW in Niedersachsen, nell’odierna Wolfsburg. La scelta del sito è ascrivibile anzitutto alla posizione centrale nei territori del Reich, sulla linea ferroviaria che collega direttamente Berlino al bacino della Ruhr e a ridosso del nuovo Mittellandkanal per i trasporti commerciali est-ovest via acqua. L’obiettivo è sviluppare un triangolo industriale con il «Reichswerke Hermann Göring» che deve fungere da unico fornitore della nuova fabbrica. Il mostro industriale di Göring si occupa di estrazione di minerali e siderurgia, di produzione di armi e ingegneria meccanica.

1945: la cittadina e la fabbrica oramai convertita alla produzione di armi e panzer vengono bombardate dagli alleati l’11 aprile; alla fine della guerra la zona è controllata dall’esercito britannico, che decide di rimettere in moto la fabbrica nazista distrutta per 3/4 al fine di garantirsi la produzione continua e pressoché gratuita di mezzi di trasporto di qualità. Questa «sporcizia storica» non riguarda solo Wolfsburg: moltissime fabbriche di armi nei territori della Germania Ovest furono risparmiate ad hoc dai bombardamenti degli alleati che già avevano pensato cosa poter piegare al proprio interesse dopo l’annunciata vittoria. La maggior parte dei bombardamenti di centri abitati, è noto, fu fatta per pura rappresaglia.

20 dicembre 1955: con la stipula degli accordi bilaterali Germania-Italia/Anwerbeabkommen zwischen der Bundesrepublik Deutschland und Italien, viene messo ufficialmente in atto un piano sistematico di arruolamento di manodopera italiana in Germania Ovest. Circa 4,5 milioni di italiani verranno smistati principalmente fra il bacino della Ruhr e Wolfsburg; di questi l’89% ha fatto rientro in Italia con la pensione, ma a Wolfsburg in molti si sono fermati, costruendo una viva e attiva comunità che vanta una scuola bilingue, un istituto italiano di cultura e differenti attività di gemellaggio. I primi ad arrivare alla stazione di Monaco di Baviera su treni zeppi come carri buoi sono veneti e friulani, ma dal 1962 in poi saranno soprattutto siciliani, calabresi, napoletani e sardi. Così, Wolfsburg diventa la prima città degli italiani in Germania: oltre il 4% della popolazione.

Anni ’60/’70: il miracolo economico VW e il sogno italiano. Il Käfer diventa un vero e proprio cult, e l’impero produttivo si allarga a Brasile, Messico e Sudafrica; nel 1970 lavorano nella fabbrica di Wolfsburg 60.000 operai. Produzione di massa significa anche immigrazione di massa e poi turismo di massa: nelle settimane di ferie estive la città si svuota perché migliaia di Maggiolini si mettono in viaggio per le vacanze in Italia. Il legame fra le due nazioni diventa ancora più stretto: da una parte il sogno italiano degli operai tedeschi che vanno a fare le ferie nelle spiagge del Belpaese, dall’altra il sogno di migliaia di italiani che a Wolfsburg vengono per lavorare e contribuire al boom economico tedesco.

Anni 2000: circa 30.000 automobili vengono esportate giornalmente da Wolfsburg in 15 paesi europei e 6 extraeuropei per un fatturato annuo di oltre 110 miliardi.

Autore

  • Francesca Petretto

    Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell'architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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Last modified: 14 Luglio 2020