Una riflessione sul recente abbattimento della “Vela verde” di Scampia, una delle sette che costituivano il complesso di edilizia popolare realizzato da Francesco di Salvo tra 1962 e 1975
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NAPOLI. «Chi vorrebbe vivere alle Vele?», domanda retoricamente una voce fuori campo. «Nessuno!», replica con banalità un coro d’intervistati. Si può dire, allora, che hanno fatto bene a demolire la Vela A, detta “la Verde”, una delle sette che originariamente costituivano il complesso di edilizia popolare realizzato da Francesco di Salvo tra il 1962 e il 1975 in virtù della legge 167/62, nel tristemente noto quartiere napoletano? Sì, ma per non cadere ulteriormente nella retorica e nella banalità, è necessario osservare la cosa sotto una lente differente, prendendo le distanze dall’emozione a cui si è assistito nel corso dei vari servizi televisivi, indistintamente orientati a esaltare l’avvenimento, all’insegna di frasi del tipo: «ora la popolazione di Scampia potrà riappropriarsi della propria vita e sperare in un futuro migliore!».
Demolire non è tabù. Il nostro Paese è già oltremodo cementificato, ma questa scelta dovrebbe essere considerata l’extrema ratio (a esclusione di motivazioni ambientali), l’ultima fra le decisioni possibili. Alternative ce ne sono molte, ma richiedono risorse, progettazione (architettonica, innanzitutto) e volontà, in primis politica. Ed è proprio questo l’anello debole dell’iniziativa di demolizione inaugurata dalla giunta Bassolino e proseguita da Iervolino prima e de Magistris poi.
La storia dell’architettura moderna e i suoi fallimenti, gli studi sociologici condotti sul tema, hanno ampiamente dimostrato che non è solo l’edificio a generare una condotta sociale negativa. Il comportamento (di cura o incuria che sia) è sempre legato anche al senso di appartenenza al luogo, tanto nei piccoli quanto nei grandi gesti; senso a sua volta determinato in gran parte dal bilancio dare-avere che si stabilisce fra residenti, comunità e istituzioni. L’esperienza emiliana condotta negli anni in cui sono stati istituiti i centri di quartiere, che il mondo intero osservava con curiosità e interesse, ha dimostrato che si può costruire un edificio e un quartiere moderno garantendo ai cittadini buona qualità di vita. Perché ciò accada, bisogna che i luoghi dell’abitare non siano solo gli alloggi dove dormire e mangiare, ma siano intesi in senso più ampio, completi anche dei servizi necessari alla vita del singolo e dell’intera comunità.
Edifici di nuova realizzazione, ben disegnati e ben costruiti, magari in classe A, forse firmati da noti architetti, potranno apparire migliori delle ormai fatiscenti Vele, il cui cemento armato a vista ha subito un tale deterioramento da rendere inagibili alloggi e sistemi distributivi, e l’incuria ha portato al degrado d’impianti fognari e spazi abitativi. Le intenzioni espresse dal Comune nel progetto di rigenerazione urbana “Restart Scampia” (finanziato con quasi 57 milioni) sono buone, ma se i nuovi edifici previsti verranno abbandonati a se stessi, senza alcun tipo di manutenzione, se verranno anch’essi consegnati ai futuri residenti senza utenze di luce e gas, se non verranno realizzati gli attesi negozi e servizi di vicinato, trasporti pubblici, giardini e luoghi di aggregazione costantemente manutenuti, chiese e luoghi di culto, centri sociali, cinema, scuole e presidi di pubblica sicurezza, come è purtroppo accaduto all’originale e stravolto progetto di Di Salvo, allora per Scampia sarà stato tutto inutile. Se, infine, nei nuovi condomini si concentreranno – com’è successo alle Vele – i casi sociali più disperati, persone senza una casa per dormire, fuoriusciti dalla galera e abbandonati a se stessi senza programmi di reinserimento sociale, senza lavoro (diritto al lavoro e alla casa, reclama a gran voce da anni il comitato civico locale), se vi si confineranno i futuri terremotati, e qui saranno abbandonati in attesa di una soluzione abitativa alternativa che non arriverà mai (proprio come accadde agli sfollati del terremoto dell’Irpinia del 1980), come possiamo credere che tutto questo non condurrà a una Scampia diversa sì nella forma, ma assolutamente identica nella sostanza? Un luogo dove al grigio del cemento si sostituirà quello di un intonaco degradato dall’incuria. La recente storia del Villaggio Olimpico di Torino ce lo ricorda, impietosamente.
Nonostante le tre faide di camorra succedutesi dal 2004 a oggi, a Scampia non manca la volontà di persone che si prendono autonomamente cura degli spazi pubblici (com’è accaduto nella realizzazione dei Giardini Melissa Bassi): sorgono iniziative spontanee e coraggiose, sociali, sportive, di cura dei giovani, d’impegno educativo e di attivismo che necessitano sostegno e incentivi, e che per questo vanno favoriti, perché il senso di appropriazione dei luoghi e di rispetto per gli stessi passa soprattutto da queste azioni quotidiane.
Sebbene sia stata fatta qualche sperimentazione di recupero anche in Italia (il più noto al pubblico è forse quello al Corviale di Roma, prima con il progetto di Guendalina Salimei e ora con quello Laura Peretti), si è scelta la strada della demolizione, non con carica di tritolo ma di retorica e populismo. Uno strumento pericolosissimo, che può condurre a risultati ancora peggiori della realtà dalla quale si cerca di fuggire, cioè l’assenza di Stato (nelle sue molteplici rappresentanze) e di legalità. Nascondere la polvere sotto al tappeto rende lustro velocemente un ambiente, almeno fino a quando il tappeto non viene sollevato.
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napoli , rigenerazione urbana
Last modified: 4 Marzo 2020
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