Visita all’ultima addizione del Museum of Modern Art di New York, su progetto di Diller & Scofidio + Renfro
NEW YORK. Il Museum of Modern Art, sorta di sacro Graal dell’arte moderna americana, si è periodicamente ingrandito fin dalla sua apertura, avvenuta nel 1939 sulla 53° Strada: una crescita a sprazzi l’ha ampliato verso ovest lungo l’arteria.
L’intervento più recente porta la firma dello studio statunitense Diller & Scofidio + Renfro ed è stato inaugurato a ottobre, a soli 15 anni dal penultimo, realizzato nel 2004 dal giapponese Yoshio Taniguchi. È stato richiesto sia dalla trentennale crescita della collezione che dai musei di nuova generazione, che hanno posto quelli tradizionali davanti a un bivio. Gli ultimi indirizzi per la conservazione, la ricerca e l’esposizione delle collezioni si sono inoltre dimostrati inefficaci nell’attirare e soddisfare i nuovi pubblici.
L’ultimo progetto di ampliamento e trasformazione vuole essere una risposta alle critiche mosse a un museo considerato troppo esclusivo sia nella presentazione dell’arte moderna e contemporanea che, implicitamente, nelle risposte che è oggi in grado di dare al pubblico e lo fa attraverso un accrescimento del 30% dello spazio espositivo, che permette anche l’approfondito riesame di tutta la collezione.
La riapertura è stata largamente pubblicata e recensita dalla stampa, con i più critici che hanno evidenziato in particolare due aspetti: il significato delle nuove modalità di esposizione delle collezioni e dei nuovi contenuti e, in misura minore, l’architettura dell’addizione. Ce n’è anche un terzo, che, rivolto direttamente ai progettisti, può essere sintetizzato come un tentativo di sovversione architettonica e di “progettazione opportunistica”, come dichiarato dallo stesso studio Diller & Scofidio + Renfro.
Erodendo la trasparenza che impregna tutto l’edificio di Taniguchi – il quale aveva combattuto per ottenere una forma coesiva anche se il sito su cui sorge è troppo debole per sostenere il suo ordine e i suoi assi -, il nuovo progetto realizza diversi nuovi spazi che, nell’insieme, non riescono a definire una dichiarazione architettonica complessiva.
Taniguchi introdusse molti spazi nobili e notevoli, come la grande lobby che s’insinua attraverso l’edificio e lo lega alla maglia urbana di questa parte di città, i padiglioni che incorniciano il giardino delle sculture e l’imponente spazio verticale che attraversa in altezza questa parte di museo mettendo a disposizione del visitatore un punto d’osservazione per le mostre permanenti e temporanee. L’architetto giapponese aveva realizzato un “grande fiume con i vortici” che, organizzato lungo assi e una corte, incoraggia in questo modo gli spostamenti dei visitatori.
Tutto ciò viene ora sovvertito da un nuovo contro-tunnel, con le nuove gallerie aggiunte nella parte occidentale di un edificio che adesso occupa la maggior parte del fronte nord della 53° Strada, senza che il complesso ne guadagni in coesione.
L’ampliamento occidentale scava attraverso l’area del demolito Museum of American Folk Art di Todd Williams e Billie Tsien e i piani inferiori del nuovo grattacielo-cartone animato di Jean Nouvel, con le sue travi inclinate drammatiche e sovradimensionate.
Le gallerie si riversano una nell’altra, senza lasciare tregua a un visitatore già disorientato dalla decisione curatoriale di dismettere la famosa e lineare narrativa del Modernismo in favore di una maggiore “apertura, tolleranza e inclusività”, come dichiarato anche nella nuova mission.
I curatori hanno inoltre promesso anche d’intervenire su un terzo degli spazi espositivi a cicli semestrali. Stephen Rustow, docente di Architettura alla Cooper Union e architetto responsabile della realizzazione dei precedenti lavori di trasformazione, suggerisce che «questo abbandono della narrazione lineare dell’arte si abbina alla perfezione con l’abbandono della gerarchia dello spazio o di ogni principio organizzativo».
Il piano terra è stato trasformato, spostando al di sotto del livello stradale un bookshop museale in cui quasi si cade, talmente è vicino all’ingresso principale. Evidenziando l’accesso diretto ai nuovi spazi espositivi, il visitatore è trascinato verso i molti e vari servizi che sono stati spostati nel collegamento con la parte a ovest; arrivati qui, un’elegante scala cattura l’attenzione, segnando il confine con la parte preesistente.
L’importanza del nuovo grande asse costituito dalla lobby di collegamento che, bilanciato dalla verticalità dello spazio centrale, connette la 53° con la 54° Strada, è stata ridotta in favore di un labirinto di spazi straordinariamente piacevoli, ben illuminati e rifiniti con materiali pregiati. Questi assomigliano a un flusso tortuoso in cui è difficile capire la propria posizione e direzione, ma nuovi schermi digitali garantiscono sia divertimento che stupore.
L’ampio utilizzo di materiali lussuosi posati in modo stravagante, come le abbaglianti pareti in marmo bianco e nero in una delle tante lounge, si accompagna a un flusso costante di sedute, caffè e ristoranti intervallati da gallerie ben illuminate e tutte identiche fra loro, che offrono ai visitatori un’esperienza straordinariamente vicina alla navigazione sul web.
Spiace vedere l’incapacità della guida del MoMA di spostarsi in una direzione più corretta e adatta, come recentemente ha invece fatto la direzione del Whitney Museum.
Dal punto di vista urbanistico, è molto difficile realizzare un edificio isolato nella griglia di Manhattan, soprattutto quando ci si trova in un’area affacciata su una via laterale anziché su un grande viale. Il valore quasi di reliquia di un indirizzo collocato sulla 53° Strada rende impensabile un trasloco ma, date le enormi spese sostenute per l’innesto dei nuovi spazi dentro quelli esistenti, avvenuto con scarso vantaggio per un museo che non ha un fronte adeguato, ci si chiede quante altre volte il complesso architettonico potrà gestire la crescita del museo senza un drastico cambio di posizione.
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ampliamenti , arte contemporanea , musei , new york , stati uniti
Last modified: 12 Dicembre 2019