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Written by: Patrimonio

Il Padiglione Le Corbusier a Zurigo, un’operazione da “gioiellieri”

Il Padiglione Le Corbusier a Zurigo, un’operazione da “gioiellieri”

Visita all’ultima opera progettata da Le Corbusier, riaperta dopo un accurato restauro a cura di Arthur Rüegg e Silvio Schmed

 

ZURIGO (SVIZZERA). Ultima opera progettata da Le Corbusier o prima opera postuma? La critica è da sempre stata divisa sulla natura del Padiglione commissionato nel 1960 dalla gallerista Heidi Weber all’allora 71enne maestro come luogo di esposizione per la sua variegata produzione. Il progetto, incarnazione della Synthèse des arts, viene intrapreso nel 1961, ma è inaugurato nel 1967, due anni dopo la morte di Le Corbusier.

La copertura formata da due parapluie-parasols giustapposti deriva dalle sue ricerche sul museo ideale (tra cui il padiglione non costruito alla Porte Maillot a Parigi, 1949-50), ma la precisa struttura d’acciaio imbullonata e i tamponamenti di metallo smaltato in colori brillanti del volume sottostante – che funge al contempo da luogo di esposizione e da appartement-atelier modello, basato sulle misure del Modulor, da cui il nome “Maison d’Homme” – sono lontani dalle ultime opere “brutaliste”.

Alla diffidenza di alcuni discepoli e di certa critica contribuisce il fatto che inizialmente il progetto fosse stato pensato in cemento armato. Il recente volume di Catherine Dumont d’Ayot sull’edificio (Lars Müller, 2012) ha tuttavia dimostrato che una prima soluzione metallica appare già nel 1961, si affina nel 1964-65 (anche grazie alla consulenza dell’ingegnere Louis Fruitet) e che nel giugno 1965 Le Corbusier ne firma i dettagli costruttivi prima di partire per Cap Martin, dove muore il 27 agosto. Weber affida allora ai collaboratori del maestro Alain Tavès e Robert Rebutato l’ultimazione dell’edificio, inclusa la redazione di oltre 150 esecutivi.

Costruito sulla riva del lago di Zurigo, su un terreno ottenuto in diritto di superficie, il Padiglione espositivo rimane per cinquant’anni proprietà di Weber. Nel 2014 passa alla Città, che si trova tra le mani un “gioiello” – così viene chiamato – con problemi di degrado considerevoli.

 

Il restauro: metodologia e cantiere

In gran parte finanziato dalla Denkmalpflege e dalla Città

, è stato affidato agli architetti Arthur Rüegg e Silvio Schmed, esperti in conservazione dell’architettura del XX secolo e fini conoscitori dell’opera di Le Corbusier, affiancati da un gruppo internazionale di esperti. L’obiettivo era chiaro: conservare l’opera così come è arrivata fino a noi (tutelata nel 2014) e adeguarla alle attuali esigenze espositive. Con due punti fermi, definiti all’unanimità: adattare i tempi di apertura del padiglione alle sue prestazioni (limitando l’apertura ai mesi caldi è stata drasticamente ridotta l’entità degli interventi volti a controllare il comfort interno) e non richiedere l’adeguamento ai regolamenti edilizi attuali (senza tale deroga l’edificio sarebbe stato sfigurato dall’aggiunta di uscite di sicurezza, dalla messa a norma dei parapetti, ecc.).

Il cantiere ha affrontato subito il problema più serio: la presenza di PCB (policlorobifenili) nella pittura (non più originaria) della copertura. All’interno di uno speciale ponteggio in depressione, operai con maschere d’ossigeno hanno rimosso i contaminanti per decapaggio e hanno ridipinto le superfici metalliche con i colori brillanti d’origine, desunti da documenti d’epoca.

Per assicurare le condizioni climatiche necessarie alla funzione espositiva del Padiglione, si è deciso di concentrare le trasformazioni al piano interrato, per diverse ragioni. La vasca di cemento armato su cui poggia l’edificio aveva subito negli anni infiltrazioni d’acqua e andava risanata; inoltre l’interrato era l’unico spazio dove era possibile assicurare un clima controllato per le esposizioni limitando interventi invasivi; infine questo piano era stato in gran parte definito da Weber, poiché Le Corbusier non lo riteneva necessario. Così le lastre d’ardesia del pavimento d’origine sono state delicatamente deposte e rimesse in opera dopo aver risanato il cemento armato, inserito nuovi impianti e sostituito il sistema di riscaldamento a serpentine fuori uso dagli anni ’80. Unito ad un dispositivo di riscaldamento ad aria, il nuovo impianto a pavimento garantisce un’umidità relativa di 55-60%, adatta per l’allestimento di opere d’arte.

Superati questi scogli, il restauro è proseguito con l’obiettivo di massima conservazione della materia esistente. Così gli elementi metallici corrosi della struttura e dei tamponamenti sono stati tagliati e reintegrati con un accurato lavoro da “carrozziere”. I giunti in neoprene che assicuravano la tenuta dei pannelli d’involucro – per i quali Le Corbusier aveva interpellato il costruttore Jean Prouvé, esperto di facciate continue – sono stati conservati quando possibile, mentre quelli che avevano perso elasticità sono stati sostituiti con nuovi giunti in silicone riprodotti all’identica. Sulle facciate est e nord sono state mantenute le lastre di vetro esistenti – alcune d’origine, altre già sostituite da Weber nel corso degli anni e conservate come testimonianza – mentre sulla facciata sud, più esposta, dove Weber aveva aggiunto pellicole protettive contro i raggi ultravioletti, le lastre sono state sostituite da vetri isolanti che riducono l’assorbimento di raggi solari. Poiché i vetri esistenti e quelli nuovi sono disposti su prospetti diversi e mai accostati, le differenze non sono leggibili se non all’occhio dell’esperto. Il pavimento in gomma bolli della Pirelli, fuori produzione e che all’esterno aveva subito diverse infiltrazioni, è stato sostituito con un materiale identico alla vista prodotto nei Paesi Bassi.

 

Interni e arredi

Negli interni i restauratori si sono confrontati con le tracce dell’uso: Weber aveva sovrapposto ai pannelli di rivestimento in rovere naturale, nuovi pannelli bianchi per ridurre il carattere “domestico” dell’appartement-atelier. Questi sono stati rimossi – ad eccezione di uno all’ingresso lasciato come testimonianza – e le tracce degli elementi di fissaggio rimangono visibili nei pannelli originari sottostanti. Anche le prese, gli interruttori e il quadro elettrico d’origine sono stati conservati.

Gli arredi, in gran parte progettati da Rebutato e Tavès, erano stati rilevati da Rüegg e Schmed nei minimi dettagli prima che Weber li portasse via nel 2014, sicché è stato possibile ricostruire meticolosamente gli elementi principali. Il proiettore metallico di tipo Guilux è stato riprodotto a mano, i tavoli in legno sono stati rifatti rispettando la lavorazione quatre cœurs d’origine, mentre il tavolo in marmo è una replica prodotta da Cassina. L’attenta calibratura di copie esatte e repliche, insieme agli arredi fissi originari, permette di ricostituire la “densità” degli interni d’origine.

 

Un primo bilancio

Se gli interrogativi sulla paternità del Padiglione restano sottesi ai discorsi sulla sua patrimonializzazione, il restauro dell’opera, così come è stata realizzata ed è giunta fino a noi, ha dimostrato ancora una volta che le ricerche preliminari all’intervento – dalla ricostruzione della genesi dell’opera all’analisi accurata del suo stato di fatto – producono un’incredibile mole di conoscenze sull’autore, sul suo modo di lavorare, sulla sua collaborazione con impiegati e consulenti esterni, innescando un circolo virtuoso tra restauro e storia dell’architettura. Tutto a vantaggio dei visitatori del Padiglione, che oggi incarna di nuovo l’ideale lecorbusieriano della Synthèse des arts.

Riaperto nel maggio 2019 dopo due anni di lavori, oggi il Padiglione è gestito dal Museum für Gestaltung che organizzerà ogni anno una mostra temporanea. La prima, intitolata “Mon Univers” e curata da Arthur Rüegg e Christian Brändle (fino a novembre 2019), permette di scoprire la varietà degli immaginari di Le Corbusier e dei suoi oggetti d’ispirazione. Negli spazi dal clima controllato dell’interrato sono presentati oggetti originari, in parte provenienti dalla Fondation Le Corbusier, mentre ai piani superiori, dove la temperatura interna subisce le fluttuazioni del clima esterno, sono disposte copie “parlanti”, tra cui la riproduzione su tela di una tappezzeria di Fernand Léger e la copia di una tela di Le Corbusier, entrambe esposte in occasione dell’esposizione “Les Arts Primitifs”, tenuta nel 1935 all’appartement-atelier del maestro a Parigi.

Autore

  • Roberta Grignolo

    Professore assistente presso l’Accademia di architettura di Mendrisio (Università della Svizzera italiana), dove insegna conservazione, restauro e riuso dell’architettura del XX secolo. Laureata in Architettura presso il Politecnico di Torino, consegue nel 2003 il DEA in “Sauvegarde du patrimoine bâti moderne et contemporain” presso l’Institut d’Architecture de l’Université de Genève (IAUG) e nel 2006 ottiene il Dottorato (Politecnico di Milano-IAUG). È stata co-responsabile del progetto di ricerca CUS "Enciclopedia critica per il restauro e riuso dell’architettura del XX secolo" (2009-2013), in corso di pubblicazione. Collabora con l’Archivio del Moderno di Chiasso su diversi progetti, in particolare sui fondi Marco Zanuso e Livio Vacchini

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Last modified: 11 Giugno 2019