Nella prima puntata dell’inchiesta dedicata al capoluogo siciliano ci occupiamo della Biennale nomade europea che suscita alcune riflessioni sulla città e sulla sua (in)attitudine al cambiamento
Un brusco risveglio
A poco meno di un mese dall’inizio della biennale Manifesta che, con il suo approdo a Palermo e la quasi concomitante nomina come “Capitale italiana della cultura 2018”, ha alimentato l’aspettativa di una rinascita urbana basata sulla cultura, la città si è bruscamente risvegliata con una notizia che riporta alla realtà mostrando quanto sia difficile invertire il declino. Dopo quasi dieci anni di attività, un fatturato con picchi da 20 milioni e clienti del calibro di Barilla, Samsung, Procter&Gamble, Vodafone e McDonald’s, chiude i battenti Mosaicoon: l’azienda palermitana con oltre 100 dipendenti che era diventata il simbolo della rinascita tecnologica e smart del Sud e che, essendo una delle aziende europee con il più alto potenziale di crescita, era stata anche inserita nell’elenco delle Best european scaleup stilato in Silicon Valley. Il fallimento è dovuto all’impossibilità di accedere a capitali che sarebbero stati necessari per investire e continuare a crescere e, malgrado lo stesso fondatore dichiari che si tratta di un problema comune a quasi tutte le realtà imprenditoriali italiane, occorre sottolineare che, in una città come Palermo, questa notizia assume toni molto foschi.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere in precedenza, Palermo è, nei fatti, una realtà in declino ove si registrano, al tempo stesso, la più alta percentuale di neet presenti in Italia (41,5% della popolazione giovanile secondo i dati ISTAT resi noti a giugno 2018), una costante emorragia di abitanti dovuta alla compresenza di uno dei più bassi tassi di natalità con uno dei più alti tassi d’emigrazione di diplomati e laureati. A questo si aggiunge il 97° posto nella classifica stilata da Il Sole 24 ore per indagare la vivibilità di 110 città italiane e, come se non bastasse, un reddito medio pro-capite di circa 10.000 euro annui che fa precipitare la città al terzultimo nella classifica nazionale.
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Narrazioni e flashback
A fronte di una realtà che, dati alla mano, è tutt’altro che rosea, un ruolo chiave nella narrazione di un’altra Palermo e nella costruzione di una nuova e più seducente immagine urbana lo gioca il sindaco Leoluca Orlando che, giunto al suo quinto mandato non consecutivo e dopo essere stato il paladino di una mitica “Primavera palermitana” cui non è purtroppo seguita un’estate duratura, essendo stato rieletto nel 2016 come sindaco dell’Area metropolitana, sta adesso spendendosi nel promuovere l’immagine di una città euro-mediterranea e multi-culturale dove albergano accoglienza, solidarietà e cultura.
Se, ai tempi della “primavera” quasi tutti gli sforzi dell’amministrazione guidata da Orlando erano stati focalizzati sulla rinascita del centro storico, più recentemente l’arte contemporanea sembra essere diventata il nuovo interesse. Non a caso, dopo la cocente bocciatura come “Capitale europea della cultura 2019” subita da Palermo nel 2013, gran parte delle energie sono state concentrate su Manifesta, per la cui attuazione l’amministrazione ha investito 4 milioni. Com’è noto, infatti, per ospitare questa biennale nomade di arte contemporanea occorre seguire un iter che prevede l’invio della domanda da parte dell’amministrazione cittadina, l’interlocuzione con il direttivo della IFM (International Foundation Manifesta) che guida la biennale e, infine, la sottoscrizione di un accordo economico in cui l’amministrazione s’impegna a pagare per ospitare il collaudato format giunto ormai alla sua 12° edizione.
In mancanza di politiche strutturali, il ricorso a format e a loghi che, una volta “indossati”, dovrebbero avere il taumaturgico potere di modificare i destini urbani, sembra caratterizzare la storia di Palermo; nel 2006, per esempio, l’approdo della X edizione della Biennale di Venezia e lo slogan Palermo città “tutta-porto” erano stati ampiamente utilizzati per fornire una “copertura culturale” al lavoro dell’Officina del Porto e agli incarichi diretti che l’Autorità portuale, con l’assenso di un’amministrazione cittadina a guida forzista, aveva affidato per il ridisegno del waterfront urbano. Ma l’attrazione verso operazioni simboliche è una costante che ha radici ben più lontane. Tra gli altri, lo ricorda Franco La Cecla che, nell’articolo “Palermo lattificata” apparso su DoppioZero, propone un corto circuito tra l’attuale narrazione urbana e il progetto di “lattificazione” che, secondo il pamphlet scritto da un certo Carlo De Belli, che nel testo si definisce un funzionario sabaudo in vacanza curativa nel capoluogo, venne intrapreso nel 1865 allorquando Palermo, assecondando il desiderio di grandeur dei suoi notabili, provò a trasformarsi in “capitale del latte” utilizzando ingenti risorse pubbliche per costruire su Monte Pellegrino un “grande mungitore automatico” da cui, attraverso un’apposita rete cittadina di “arterie lattifere”, distribuire in tutte le case il liquido munto da ben 120.000 capre.
Rispetto alla grande attesa di rilancio culturale, alla retorica della partecipazione e del coinvolgimento cittadino che è stata ampiamente pubblicizzata nel periodo di gestazione che ha preceduto l’apertura ufficiale di Manifesta, adesso, aggirandosi nello straordinario teatro urbano che è Palermo è facile essere assaliti da un flashback. Riaffiora, infatti, la stessa perplessità provata durante la proiezione di “Palermo Shooting”: il film commissionato a Wim Wenders per rilanciare l’immagine del capoluogo siciliano che, con la sua didascalica narrazione di una città in cui albergano morte e stupore, è invece riuscito a deludere, in un solo colpo, critica e botteghino.
Il processo di avvicinamento a Manifesta – il cui “creative mediators” è Ippolito Laparelli Pestellini dello studio OMA che ha coordinato il team costituito da Bregtje van der Haak, Mirjam Varadinis e Andrés Jaque -è stato caratterizzato da una mappatura della città che è stata raccolta nel volume Palermo Atlas. La pubblicazione è un corposo seppure non troppo completo atlante urbano da cui dovrebbero emergere le istanze, le possibilità latenti, le stratificazioni, le culture e gli immaginari presenti nel tessuto urbano, e dove spesso traspare invece una narrazione didascalicamente engagée, volta a dimostrare che Palermo rappresenta un modello urbano inclusivo e multiculturale da cui è possibile attivare una riflessione più ampia su tutti i problemi che affliggono l’era contemporanea: dalle migrazioni, ai cambiamenti climatici per giungere, infine, al riconoscimento di un patrimonio condiviso di culture e valori che permettano di costruire un “giardino planetario” in cui “coltivare la coesistenza”. Il tema, preso a prestito dal botanico Gilles Clément, è, non a caso, il filo conduttore di tutte le mostre di Manifesta, dei vari eventi collaterali e della sezione Educational. Si tratta di un filo conduttore che, nell’evocare una Palermo divenuta anche città “tutta-orto”, è didascalicamente rappresentato nelle opere esposte all’Orto botanico, ove gli artisti si cimentano con la narrazione della ricchezza del patrimonio colturale siciliano e con le possibilità d’ibridazione offerte dalle sue particolari condizioni bioclimatiche.
Il quartiere generale di Manifesta è collocato alla Kalsa, l’antica cittadella araba in cui, da tempo, sono concentrati gli interessi economici di pochi soggetti e dove, non a caso, negli anni a guida forzista della città, Davide Rampello aveva creato il festival Kals’Art: un chiaro esercizio di marketing urbano volto a trasformare in brand questo comparto.
La biennale nomade va nei palazzi
La visita tra le installazioni di Manifesta può essere indimenticabile poiché offre l’occasione per accedere a numerosi e stupefacenti palazzi del centro storico. Qui, come pressoché unanimemente sottolineato da giornalisti e commentatori della kermesse, Palermo sa essere seducente e fotogenica come poche altre città e la grandezza del passato prende quasi sempre il sopravvento sulle installazioni.
Tra le sedi principali del programma di Manifesta e dei suoi eventi collaterali vi sono alcuni tra i più prestigiosi edifici nobiliari della città: i palazzi Butera, Forcella Da Seta, Ajutamicristo, Costantino, Trinacria, Mazzarino, Oneto di Sperlinga… Trattandosi di proprietà di antiche famiglie nobili o di nuovi ricchi e soggetti corporativi che, per i restauri, hanno spesso utilizzato finanziamenti pubblici, ci si rende facilmente conto che quella a cui si sta assistendo è l’effettiva manifestazione del ritorno del capitale parassitario nell’economia di questa città: la cosiddetta, sempre sicura, rendita! In questo senso non pare casuale che tra le iniziative connesse alla biennale nomade vi sia il lancio della campagna nazionale per l’arte contemporanea promossa da Sisal, partner principale di Manifesta, con l’apertura, nel privato e nobiliare palazzo Drago Ajroldi, del Sisal Art Place, uno spazio che rappresenta il primo passo di un progetto di riqualificazione a lungo termine e che, fino alla chiusura della biennale, accoglierà esposizioni e incontri.
A rassicurare il visitatore che Manifesta rimane pur sempre una biennale nomade e socialmente impegnata c’è l’attività dell’Education Hub: un autobus attrezzato che, da giugno a ottobre, si muove dei quartieri più periferici della città proponendo un calendario di 16 appuntamenti rivolti a bambini e ragazzi. A questo si aggiunge la realizzazione, presso il quartiere ZEN di Becoming Garden, un giardino pensato da Coloco e Clément (che tuttavia, proprio come Rem Koolhaas, non ha ancora visitato la città…) e realizzato coinvolgendo famiglie e associazioni attive nel quartiere. Il giardino sarà definitivamente consegnato il 4 novembre, giorno ufficiale della conclusione di Manifesta, ma nel frattempo, attraverso assemblee e pagine social, è stata richiesta la partecipazione di cittadini e giardinieri di ogni tipo per fronteggiare i rischi connessi al caldo estivo e alla mancanza d’acqua.
Cambiamenti?
In tutte le occasioni pubbliche è stato da più parti ribadito che Manifesta non sarà un evento temporaneo ma produrrà frutti duraturi. Al momento è ancora presto per dire cosa resterà di questa kermesse che, nel suo primo week end, è stata caratterizzata dalla presenza di oltre 3.000 visitatori i quali, nel passare da un vernissage all’altro, si aggiravano estasiati, stupefatti e curiosi tra palazzi nobiliari, degrado, immondizia e aperitivi offerti sulla spiaggia o in locali alla moda. A poco meno di un mese dall’inaugurazione, l’invasione di quell’esercito a tratti vacanziero appare un ricordo e, purtroppo, l’obiettivo dei 100.000 turisti attesi per l’occasione sembra ancora un miraggio.
Anche se per la rinascita di Palermo c’è ancora tanto da fare, c’è già un primo interessante segnale da registrare: accanto a progetti rigorosi come lo è, ad esempio, quello di Roberto Collovà per la Costa sud e ad installazioni d’impatto come la colata di olio nero con cui Per Barclay invade la Cavallerizza di palazzo Mazzarino, soprattutto nel programma dei 71 eventi collaterali stupisce la presenza di alcuni soggetti, spesso legati alla nobiltà e alla migliore borghesia cittadina; una presenza che, non essendo sempre supportata da una solida ricerca artistica, sembra motivata dalla volontà di sfruttare l’onda del nuovo corso artistico della città. A loro si aggiunge la consueta presenza di personaggi i quali, da sempre, governano il capoluogo siciliano dimostrando che, laddove non è ancora dato sapere se e come Manifesta cambierà Palermo, è già vero che Palermo ha cambiato Manifesta facendo in modo, ancora una volta, che nulla cambi.
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arte contemporanea , palermo , ritratti di città , ritratti di città: palermo , sicilia
Last modified: 13 Agosto 2018