Seconda parte del report dalla città partenopea: dal rapporto (carente) con il mare, alla valenza sociale delle architetture. E la cultura? Eccellenza viva ma solitaria
Leggi la prima puntata: Napoli insolvibile
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NAPOLI. Si può dire che nello scenario di una pianificazione più che quarantennale l’opera pubblica più importante realizzata a Napoli è la tangenziale: 20,2 km, 3,3 km di viadotti, 6 corsie, 30 piazzole di sosta, 4 gallerie, 250.000 transiti medi. L’autostrada urbana passa al centro della città. Agli inizi degli anni sessanta, Luigi Piccinato propone una soluzione “interna”, un asse attrezzato e gratuito che prevale sull’ipotesi “esterna” a servizio delle zone industriali. Il progetto viene allargato alle zone industriali e l’asse si trasforma in autostrada a pagamento. È evidente che l’impatto è enorme, in parte mitigato dalle piantumazioni, i rivestimenti tufacei, la cura delle uscite e dei tunnel. In certi punti si vede il mare.
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Un nuovo waterfront
Il mare è una risorsa
. In febbraio, alla presenza del ministro Graziano Del Rio, è stato presentato il progetto di riqualificazione dell’area monumentale del porto – Calata Beverello. Si tratta del primo lotto funzionale del più ampio progetto di riqualificazione del waterfront dalla Darsena Acton alla Calata del Piliero, vincitore del concorso internazionale del 2004, e riguarda il nuovo terminal passeggeri. Parliamo complessivamente di una struttura destinata a più di 6,5 milioni di turisti e cittadini e di un costo in questa fase di 20,5 milioni, finanziato dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. La riqualificazione di un waterfront è in assoluto un progetto strategico per l’intera città. Michel Euvé coordinatore del gruppo di progettisti vincitori ricorda i numeri: «20.000 mq di nuovi percorsi pedonali verso il mare, circa 12.000 mq di spazi commerciali, 4.800 mq di superfici panoramiche (all’interno degli ex magazzini generali) per tempo libero ed esposizioni, 1.300 posti auto». Si tratta di una trasformazione che avrà tempi lunghi: 15 anni se tutto va bene. Restano le criticità impellenti.
Ad oggi, in ogni caso, il mare sembra una risorsa inutilizzata. Quello che risulterebbe assolutamente da potenziare è un rinnovato e integrato sistema di collegamenti marini urbani. Così si potrebbe alleggerire il traffico lungo la costa aggravato dalla tanto pubblicizzata pedonalizzazione del “lungomare liberato” che ha scaricato il peso veicolare sulla viabilità più prossima senza progettare un’alternativa. Nel 1992 il progetto vincitore del concorso I.G.I. “Un’idea per ogni città”, a firma dello studio Pica Ciamarra Associati, prevedeva un sistema di assi e parcheggi sottomarini, in cemento armato, costruiti a terra e poi affondati e zavorrati. Ad oggi il rapporto con la città si sviluppa soltanto sulla “passeggiata” che intensifica la componente aggregazione in corrispondenza delle rotonde. Niente di più. Ma dal mare si accede ad un punto di vista della città bassa e collinare che mostra una sequenza di episodi di qualità architettonica intervallati da frammenti di spazi a verde pubblici e privati. Sembra che non chiedano altro che una trama di connessione e un utilizzo più democratico.
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Il ruolo delle metropolitane
La città ne è attraversata. La “filtering line” progettata per il waterfront in continuità con la Via Marina, è interconnessa con la galleria che collega la stazione marittima con la stazione della metropolitana di piazza Municipio di Alvaro Siza ed Eduardo Souto de Moura. Il videoaffresco dell’artista israeliana Michal Rovner lungo 37 m è quasi sempre fuori servizio e puoi anche trovare su un display la dicitura: “prossimo treno tra 19 minuti”, allora ti chiedi se è ancora il caso di parlare di metropolitana. L’opera è costata 250 milioni di euro, è stata oggetto di 27 varianti per ritrovamenti archeologici ed è incompleta; resta da realizzare il “tunnel di luce” che collegherà la terraferma al mare. Vicenda richiamata perché emblematica, ma le cosiddette “Stazioni dell’Arte”, pensate come nuovi spazi per la mobilità e la cultura, in stretta connessione con la rete regionale, sono un segno distintivo della città. Oggetti tuttavia, di più o meno riconosciuta qualità, con firme prestigiose da Massimiliano Fuksas a Dominique Perrault ad Alessandro Mendini che, impegnato nella realizzazione delle stazioni di Materdei e Salvator Rosa, propone di integrare gli interventi con le opere di artisti legati al territorio campano in una specie di campionario di nuova arte pubblica. E gli artisti vanno da Mimmo Paladino a Jannis Kounellis a William Kentridge e altri. Ma quale modificazione urbana significativa hanno prodotto se non limitata all’intorno più prossimo? Quale sistema virtuoso sono state in grado di mettere in moto? Certo ne deriva una sorta di fiducia nel futuro insolita per le connotazioni dell’uomo meridionale ma, a pensarci bene, restano ineluse le domande urgenti che riguardano l’incidenza dell’architettura sulla realtà e la sua aspirazione a creare qualità.
Architetture a vocazione sociale
Nella città e nelle sue periferie ce ne sono; facciamo qualche esempio emblematico. Uno, il quartiere Cesare Battisti, costruito dallo Iacp subito dopo la guerra nei pressi del cimitero di Poggioreale, progettato da Franz Di Salvo, Luigi Cosenza ed Ezio De Felice. Costituito da dodici edifici disposti su quattro file parallele, oggi non ha più niente del linguaggio che costituiva la via partenopea al modernismo italiano. Ma il linguaggio, si sa, è espressione di un’idea che nel caso metteva al centro dell’impegno tanto progettuale quanto teorico la questione della “residenza” e della “città”. La vicenda è emblematica di un destino che si ripete e di una ricorrente “impossibilità” che attraversa la storia di Napoli.
Due, puntuale e di tutt’altro genere. Il Palazzo delle Poste progettato da Luigi Vaccaro e costruito dal ’31 al ’36, oltre alla grande qualità di un’architettura che mette insieme modernità e rappresentatività, riafferma la propria unitarietà e ricompone le sconnessioni del sito con l’articolazione dei volumi. Grande esempio di architettura civile e urbana.
Tre, una vicenda più che un’architettura: il rogo di un pezzo di Città della Scienza a Bagnoli (1/5 delle superfici) che la sera del 4 marzo 2013 bruciò il polo culturale progettato dallo studio Pica Ciamarra Associati. Emblematico perché ad oggi piena luce sulle colpevolezze e sui moventi ancora non c’è; perché la vicenda della ricostruzione passa dalla decisione tutta politica di non ricostruire l’edificio in sito. Si preferisce invece avviare un farraginoso e lungo iter di concorso che s’intreccia con decisioni contradditorie e dinamiche politiche. Praticamente un passo avanti e uno indietro e, ad oggi, tutto è incagliato non si sa dove senza alcuna previsione di risoluzione; perché in qualche modo, come sempre accade, nella città le energie migliori trovano una risposta da un’altra parte, esclusivamente per forza propria: nel caso l’inaugurazione il 4 marzo 2017, quattro anni dopo l’incendio sbloccando situazioni di altrettanto stallo, di Corporea primo Museo interattivo del corpo umano, a firma dello stesso studio PCA; e infine per le fiamme e i fumi che hanno invaso la notte come il Vesuvio in eruzione ne La pelle di Curzio Malaparte.
Poi c’è molto altro, da Villa Oro alla Borsa merci, dall’Ospedale del Mare alla Facoltà di Ingegneria. Ma le conclusioni di questo viaggio si collocano in un campo “laterale”. Una città è fatta di materia fisica e geografica. Ma l’uomo ne abita la lingua, l’ambiente espressivo, la storia e l’esperienza che se ne trae, il coraggio e le vigliaccherie, la malinconia e l’ironia, l’appartenenza e la visione. In una parola la cultura. Che a Napoli è eccellenza viva. Solitaria, che fa tutto da sé, ma e forse per questo: viva. A mo’ di esempio, la serata dei David di Donatello è stata una grande occasione di riconoscimento per la parte creativa di questa terra.
La città e tutto il movimento hanno bisogno di architettura, punto.
In copertina, il mercato del pesce (disegno di Davide Vargas)
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napoli , ritratti di città
Last modified: 14 Maggio 2018
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