Carlo Olmo, fondatore del Giornale, commenta la mostra sui 64 anni di lavoro dello studio Gregotti e Associati curata da Guido Morpurgo. A Milano fino all’11 febbraio presso il PAC-Padiglione Arte Contemporanea
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MILANO. Una mostra su un’intera carriera rischia l’oleografia quasi per impostazione. Se poi la carriera copre più di sessant’anni, produce più di 1.200 progetti e coinvolge la vita, non solo professionale, di centinaia di persone, la marcia dell’Aida risuona già alle spalle dell’incauto visitatore.
La mostra su Gregotti e Associati sembra voler, quasi con pervicacia, mettere in sequenza inversa (dall’ieri, 2017, …alle origini) un susseguirsi di progetti e realizzazioni, rappresentate da poche foto, alcuni disegni e modelli, quasi a parlare più a chi già conosce le opere messe in mostra che a voler accompagnare un visitatore ignaro di quel percorso. Lo fa insieme sul modo di progettare e sulle architetture che popolano quelle sale e quei lunghi decenni.
Una mostra dentro una memoria collettiva – condivisa o conflittuale, poco la rassegna ce lo racconta -, che quasi ammicca a chi ha le chiavi per seguire il curatore, Guido Morpurgo, nel montaggio di una sequenza messa in scene. Superare lo spaesamento non è facile, perché i segreti dell’atelier sono gelosamente custoditi da una documentazione che definire scarna significa già avere una visione ottimistica della storia. Eppure chi riuscirà a farlo si troverà davanti una straordinaria… anteprima. Di che cosa?
In primis dell’unica avventura italiana di uno studio professionale di dimensione e scala europee. La mostra – che distingue regesto e racconto delle opere anche spazialmente – allude a una prosopografia della progettazione architettonica che ha in Gregotti e Associati il suo laboratorio italiano più suggestivo. Suggerisce un tema – l’autore (e l’autorialità) in architettura non muore con la metà degli anni sessanta: nella progettazione architettonica quasi non esiste – e lo lascia però nascosto tra foto, tavole e disegni. Ancor più, propone una parabola del lavoro progettuale – dalla libera professione al lavoro in team – che offre diversi nodi da sciogliere: dai rapporti di forza dentro strutture di lavoro così ricche d’individualità, alla cooperazione tra saperi specialistici e saperi relazionali, alla divaricazione che si crea tra lavoro nell’atelier, dimensione pubblica dello studio e sua narrazione. Sembra quasi una sfida a una storiografia pigra e fortemente segnata dalla sua matrice artistica. Una sfida che viene quasi messa in discussione dalla dimensione intellettuale ed editoriale che accompagna la vita di Vittorio Gregotti e del suo atelier: luogo, anche fisico, dove si costruiscono riviste, libri e narrazioni; e in cui operano figure non propriamente progettuali e altre vengono coinvolte, aiutando a definire un terzo filo rosso che accompagna la mostra.
A quella straordinaria dimensione – per l’Italia almeno quantitativa -, si accompagna un’altrettanto ricca produzione editoriale di Gregotti che arriva sino al 2017. Allora è possibile far convivere la dimensione di uno studio che costruisce la sua fortuna sul numero dei lavori, con quella di un architetto intellettuale che si dimostra in grado di riflettere e organizzare la riflessione sul lavoro che via via si produce? Non sono cioè un destino necessario la tecnocrazia e la doppia egemonia di tecnocrati e manager nella vita di strutture cooperative così complesse come studi di architettura di queste dimensioni? E la narrazione o la riflessione possono non essere solo processi di legittimazione delle pratiche, quasi veli da squarciare per arrivare a una materialità nascosta, quasi come il vello che inseguiva Giasone? Ma forse sono l’anteprima più intrigante che la mostra suggerisce e invita a indagare sull’idea e le pratiche della modernità in architettura.
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La modernità
La sequenza dei progetti e delle immagini che li illustrano tolgono subito dal campo la possibile dimensione stilistica e linguistica della modernità. Ricercare uno “stile Gregotti” nella mostra non è solo frustrante: è fuorviante. La modernità che è continuamente in questione nei 64 anni di lavoro che la mostra copre ha come prima declinazione un gioco di scale. Si sarebbe tentati di semplificare usando termini come architettura, urbanistica, territorio. In questo il titolo dato alla mostra, con la ripresa del titolo del libro più noto di Gregotti, è quasi fuorviante, perché lo studio lavora – in forme e con figure molto diverse nei decenni – sulla costruzione-ricostruzione delle scale su cui fa lavorare il progetto di architettura e la modernità: un gioco di scale che non può essere congelato in una tipologia come in una forma, o ancor meno in un concetto contenitore. Il gioco di scale – di cui il primo compiuto esempio è il progetto per l’Università della Calabria – sta dentro ogni fase e ogni definizione del progetto e si declina nella dimensione civile, quasi alla Francesco Milizia, che ha un procedere in cui ogni spazio ha una sua funzione “civile” e il progetto lavora sul come evolve o involve la definizione di pubblico. Per Gregotti e Associati, una modernità senza un continuo rimando alla natura di un’utilitas anti hobbesiana non avrebbe comunque ragione di esistere.
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Architettura poetica
La seconda traccia di cui la mostra offre un’importante anteprima è il rifiuto dell’architettura come tecnica secolarizzata
. I progetti in mostra sono manifesti di un’architettura che rifugge dalle semplificazioni di varie declinazioni della costruzione come tecnica incontrate e attraversate nei 64 anni di vita dell’atelier: da quelle dell’industrializzazione postbellica a quelle ironiche e dissacranti dell’architettura pop; da quelle senza ironia dell’high tech a quelle del cinismo neoliberista, con la virtualità e l’apparente dissoluzione dell’architettura in immagini più o meno seducenti e pacificanti. Le architetture di Gregotti e Associati sono materiche, rudi, poetiche nella loro ricerca quasi a priori della venustas, della lunga durata, del dialogo con le culture materiali e dei personaggi che popolano cantieri e città che tali devono o almeno dovrebbero rimanere. Ma è anche una modernità che quasi dà corpo a uno dei saggi più belli della seconda metà del Novecento: Architecture et narrativité di Paul Ricoeur. La narrazione non solo è una forma di legittimazione del fare, ma è parte integrante dell’opportunità che ogni progetto di architettura offre di riflettere e provar a riordinare i nessi che legano forme sociali, immaginari, memorie collettive, tecniche che sono in primis produzioni sociali di senso.
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Una commedia umana
Una mostra che è un’anteprima offre soprattutto indizi e non prove, fili e non matasse
belle e ordinate, opportunità di verificare quanto il cassetto degli attrezzi di critici e storici della modernità sia arrugginito, apre a prosopografie che sono ancora terreno quasi vergine per la storiografia contemporanea, sgombra il campo da mitografia e al contempo genera melanconie. Perché quell’avventura, intreccio di dimensioni intellettuali, organizzative, di egemonie culturali ricercate sui diversi piani che un’architettura indaga e investe, è anche il palinsesto di una comédie humaine quasi balzachiana e forse irriproducibile, in un mondo di omologazioni e ancor più decisamente di professionisti… a una dimensione, travestiti da avatar di un mondo virtuale.
Le Corbusier chiamava il suo ultimo atelier un arcipelago: quello di Gregotti e Associati è stato forse un’isola in una geografia di dispersione e in parte di crisi della stessa declinazione di atelier, in cui hanno convissuto generazioni, culture, diseguaglianze e opportunità. Di cui forse resta da raccontare anche il conflitto che ha animato un’esperienza così fortemente connotata dall’egemonia e dall’istanza al tenere comunque insieme sistemi valoriali, non solo pensieri sulla crisi e il suo voler essere l’autentica dimensione della modernità. Un po’ paradossalmente, vista la scelta di mettere in scena così tanti progetti e in forme così sintetiche, la mostra appare una forma di neorealismo, quasi ironico rispetto alle cyber architetture che fanno oggi la fortuna di tanti studi professionali. E questa è certamente una chiave di lettura trasparente in tutta la mostra e nelle scelte del suo curatore.
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Il territorio dell’architettura. Gregotti e Associati. 1953-2017
PAC – Padiglione Arte Contemporanea, Milano
20 dicembre 2017 – 11 febbraio 2018
Curatore: Guido Morpurgo
Allestimento: Studio Cerri & Associati (Pierluigi Cerri, Alessandro Colombo)
Ordinamento: Sergio Butti
Enti promotori: Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea
In occasione dei novant’anni di Vittorio Gregotti, il PAC celebra la carriera del grande architetto italiano con una mostra antologica, raccontando la sua ampia attività e quella del suo studio in oltre sessant’anni di progetti in Italia e all’estero. Dal 1953 fino ad oggi Vittorio Gregotti ha condiviso il suo studio con diverse personalità tra cui Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino, Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui, Bruno Viganò, Carlo Magnani, Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi oltre a partner esterni quali Manuel Salgado e Saad Benkirane, gli Associati e a una folta schiera di collaboratori. La sua attività rappresenta una sorta di unicum nell’architettura europea, caratterizzata da un’unità metodologica e un impegno integrale in tutte le scale del progetto: architettura, disegno urbano, interni e allestimenti museali, arredi e prodotto industriale, grafica ed editoria. Il titolo della mostra, tratto dal titolo di un suo omonimo libro, stabilisce un’ideale continuità e una forma di rispecchiamento con il territorio dell’architettura come superficie di incontro tra contributi provenienti da altre esperienze e discipline.
Con 60 disegni, 40 modelli originali in scala e 700 tra riproduzioni e fotografie, la mostra guida il visitatore all’interno del Territorio dell’architettura disegnato da Gregotti: dalle opere degli anni ’50, attraverso i progetti antropogeografici degli anni ’70 come le università di Firenze e della Calabria e quelli per le città europee degli anni ’80 come Berlino e il centro culturale di Belém a Lisbona, fino ai progetti più recenti in Africa e Pujiang in Cina. Un percorso di ricerca, ma anche una forma di resistenza contro la dissoluzione dell’architettura nella comunicazione, per riportare la figura dell’architetto nell’alveo della grande cultura europea.
Il catalogo della mostra, edito da Skira Editore, comprende i contributi critici di Rafael Moneo, Joseph Rykwert e Franco Purini.
(fonte PAC Padiglione d’Arte Contemporanea)
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Milano , mostre , vittorio gregotti
Last modified: 17 Marzo 2020