“Celebrating Habitat. The Real, the Virtual & the Imaginary” è il titolo della retrospettiva su Balkrishna Doshi, discepolo di Le Corbusier in India, a cura di Khushnu Panthaki Hoof presso la Power Station of Art di Shanghai fino al 29 ottobre
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SHANGHAI. Lungo una parete di 10 metri scorre la vita di Balkrishna Doshi, architetto indiano figlio delle avanguardie del Novecento, ma che ha potuto con il suo lavoro affacciarsi pienamente sul nuovo millennio.
La mostra retrospettiva curata da Khushnu Panthaki Hoof si può visitare alla Power Station of Art di Shanghai – ex centrale elettrica sulle rive del fiume, ora grande spazio espositivo per le arti – ed è in grado di far assaporare al visitatore le fasi storiche di una vicenda professionale che si svolge su 62 anni e che ha dello straordinario.
Come collaboratore di un le Corbusier già all’apice della fama, Doshi assorbe pienamente le lezioni del maestro del Moderno financo nella calligrafia che campeggia giustamente, quasi marchio di fabbrica, sulle pareti della mostra.
Detto “il guru” nello studio parigino di rue de Sèvres dove lavora per quattro anni dal 1951, il giovane professionista indiano diventa poi l’ambasciatore e il rappresentante di Le Corbusier in India seguendo il cantiere di Ahmedabad, senza esimersi dall’essere predicatore convinto della nuova architettura al punto da diventare nel 1962 ancora giovanissimo – sembra impossibile visto oggi – fondatore e preside della School of Architecture di Ahmedabad.
È forse in questo momento che inizia il percorso più personale e originale della sua lunga carriera. Lui stesso riconosce in tre figure i propri mentori: Le Corbusier, Louis Kahn e Rabrindanath Tagore. Sono tre maestri riconosciuti e ricercati lungo una stessa linea di visione della vita e della professione e che segnano il percorso dell’architetto indiano dalle teorie moderniste occidentali alla loro traduzione nella visione filosofica e spirituale indiana. Questa vicenda non è a caso mostrata qui nella Cina sud orientale, teatro di grandi sviluppi urbani: l’auspicio degli organizzatori è che la filosofica introspezione presente nel lavoro di Doshi possa suggerire ai giovani architetti cinesi la via per ricercare, attraverso l’esperienza del Movimento Moderno, quel vocabolario e quella sintassi architettonica nazionale che la grande potenza asiatica, in fondo, non ha ancora trovato nonostante i grandi mezzi a disposizione e le occasioni uniche al mondo.
La mostra si articola in modo non lineare fra 30 progetti “dal cucchiaio alla città” presentati attraverso disegni, foto, modelli che invitano il pubblico all’esperienza dell’architettura come celebrazione dell’habitat. Spicca una mappa di una città impossibile costituita dal collage di 30 progetti urbani redatti dal professore pluridecorato, mentre il progetto che per primo accoglie il visitatore è in verità la ricostruzione in scala 1:1, ma a trompe l’oeil fino all’1:2, dello studio dell’architetto a Sangath, in un gioco fra realtà e illusione che ne segna tutta l’opera. Il cemento armato faccia a vista di stretta osservanza modernista, il disegno sapiente e razionale delle scale che contraddistinguono molti edifici, si fondono senza traumi con una visione che diventa organica e quasi anatomica come nella galleria d’arte Amdavad ni Gufa, il modello la cui copertura “a bolle” campeggia negli spazi di mostra. L’Aranya Low Cost Housing dimostra, se ce ne fosse bisogno, la capacità di Doshi di misurarsi con la dura realtà della condizione sociale in India senza rinunciare alla qualità dell’architettura e alla volontà di rispondere ad un bisogno.
Il reale, il virtuale, l’immaginario sono in verità dimensioni effettive di un’architettura attenta all’uomo e ai suoi bisogni spirituali e materiali che costituiscono la cifra più autentica del percorso del maestro indiano. Una mostra semplice e bella che racconta un’avventura ricca ed inimitabile, colma di progetti e realizzazioni che rispondono ad una concezione che probabilmente la storia ha bocciato ma che ci donano con commossa nostalgia una visione di quel periodo del secolo breve durante il quale l’architettura aveva il coraggio di voler pretendere di cambiare il mondo per renderlo migliore.
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Celebrating Habitat-The Real, the Virtual & the Imaginary
Curatore Khushnu Panthaki Hoof
Power Station of Art, Shanghai
Dal 29 luglio al 29 ottobre 2017
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Chi è Balkrishna Doshi
Nasce nel 1927 a Pune, India. Lavora per quattro anni nello studio di Le Corbusier a Parigi a partire dal 1951 e per altri quattro anni quale supervisor dei progetti a Ahmedabad. Associato a Luis Kahn quale local architect per l’Indian Institute of Management sempre ad Ahmedabad, nel 1955 fonda il suo studio Vastu-Shijpa che diventerà Fondazione per gli studi e la ricerca in Environmental Design. Membro del Royal Institute of British Architects, è Fellow dell’Indian Institute of Architects e fa parte di prestigiose giurie internazionali, quali quelle per l’Indira Gandhi National Centre for Arts, per l’Aga Khan Award for Architecture e per il Pritzker Prize. La sua fama nasce dal suo lavoro di architetto ma anche di educatore e fondatore di istituzioni quali la School of Architecture, la School of Planning, il Centre for Environmental Planning and Technology, il Visual Arts Centre, il Kanoria Centre for Arts, tutti ad Ahmedabad. Figura internazionalmente riconosciuta, ha occupato cariche in diverse università negli Stati Uniti.
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Last modified: 27 Settembre 2017
[…] sta avvenendo una riscoperta di Balkrishna Doshi (1927). Due recenti mostre, a Delhi nel 2014 e a Shanghai nel 2017, hanno raccontato i suoi oltre sessant’anni di lavoro; e l’anno scorso è arrivato il Pritzker, […]