Prosegue la serie di incontri con la “generazione di mezzo” di progettisti italiani, noti anche a livello internazionale sia per la qualità della ricerca sia per le realizzazioni. È la volta di Francesco Fresa, che con altri tre colleghi, un giorno del 1996 abbandonò lo studio di Vittorio Gregotti… e nacque Piuarch
Come i matrimoni, si sa, oggi i sodalizi professionali non sono l’esatta metafora di un’unione duratura. Talvolta, quando va bene, presentano nel tempo assetti variabili; talaltra, invece, si squagliano come neve al sole primaverile. Le cose poi si complicano se i fondatori sono più di due. Va dunque salutato con un certo interesse, non fosse che per la cronaca, il traguardo dei vent’anni di carriera per i quattro fondatori di Piuarch. Fattisi le ossa, un giorno, nel 1996, decisero di uscirsene insieme dallo studio Gregotti Associati International per tentare la fortuna. Le parole di congedo dell’arcigno Vittorio non furono propriamente beneauguranti (conoscendo il personaggio, possiamo immaginarle). Tuttavia, da allora, i quattro partner di strada ne hanno fatta. Adesso si trovano a Brera, nel cuore della Milano che conta, in un luminoso open space a doppia altezza, ricavato da uno spazio industriale su cortile che un tempo ospitava una tipografia. Alle loro dipendenze lavorano 11 associati e 40 tra architetti e ingegneri, molti dei quali provenienti dall’estero. Il campo d’azione di Piuarch spazia dal recupero di aree industriali (l’ultimo progetto, appena concluso, riguarda la sede di Gucci nelle ex Officine Caproni in via Mecenate, a Milano, prima azienda aeronautica in Italia) alle boutique delle griffe (per Yamamay ma soprattutto per Dolce & Gabbana, una quarantina in giro per il mondo, oltre alle sedi di rappresentanza e di produzione dell’azienda in Italia), dai complessi residenziali e direzionali ai piani urbanistici. Lo studio partecipa a numerosi concorsi, e non è infrequente che se li aggiudichi. All’estero, ultimamente Piuarch opera in Russia e Ucraina. Lo Spazio FMG per l’architettura gli ha appena dedicato una mostra. Con Francesco Fresa, uno dei fondatori, affrontiamo il tema dell’esercizio della professione, tra cambiamenti e differenze tra Italia ed estero.
Com’è organizzato il vostro studio?
Il nostro è uno studio associato non solo dal punto di vista legale, in quanto condividiamo un’idea di lavoro, un approccio alla professione. Il nome stesso lo denota: è neutro, non sfoggia sigle o particolari identità. In questi vent’anni, nessuno di noi quattro ha mai privilegiato posizioni individualistiche, ad esempio attraverso la rincorsa di carriere universitarie. L’aver operato “all’ombra” mediatica delle archistar ci ha permesso di concentrarci sul nostro lavoro. Inoltre, abbiamo sempre evitato di legarci a particolari rapporti di committenza: così, abbiamo potuto progettare per Dolce & Gabbana come per gli enti case popolari.
Quindi come arrivano le commesse: qualcuno viene a bussarvi alla porta?
Sì. Gli stessi lavori recenti, per Caritas, Coop, Enel, non sono derivati da relazioni personali ma dal fatto che qualcuno aveva visto il nostro lavoro. Così, il bilancio di vent’anni è quello di una professione svolta in silenzio, concretamente, che ci ha permesso di costruire tanto anche in periodi in cui si costruiva di meno.
Com’è cambiata la professione, in questi vent’anni?
È cambiata su molti fronti. Intanto a livello metodologico. L’uso del computer ha modificato il modo di progettare, lavorando sulle forme, prima non così enfatizzate. E poi sul fronte del disegno, con grandi perdite che hanno amplificato quelle già registrate nel passaggio dalla mano libera al disegno tecnico. Inoltre, lavorando allo schermo, si è completamente persa la percezione del rapporto di scala metrica, che porta a equiparare un dettaglio a un quartiere. A volte si rischia di usare una scala sbagliata, ovvero un linguaggio sbagliato in relazione al fine da perseguire.
Voi lavorate molto anche all’estero. Vi sono differenze nell’esercizio della professione rispetto all’Italia?
In Italia, a partire dagli anni sessanta e settanta è venuta a definirsi, rispetto a paesi come Francia e Germania, una particolare idea del ruolo dell’architetto che ha portato fondamentalmente a una diversa concezione della pratica professionale e a una cattiva architettura diffusa. Negli anni ottanta e novanta l’architetto pareva più, a seconda dei casi, un decoratore, un teorico o un faccendiere. Ciò ha di fatto provocato uno scollamento tra percezione dell’architetto e reale esercizio professionale e, ancor più, tra architetto e accademia, con la letale imposizione legislativa che richiedeva di scegliere tra carriere. Così, in Italia, paese in cui si concentra il 70% del patrimonio Unesco, dagli anni sessanta abbiamo assistito alla moltiplicazione (pari talvolta a 5 volte lo stato precedente) del patrimonio costruito, con la conseguente devastazione del territorio perpetrata da progettisti privi di un’ageguata preparazione. Rispetto all’opzione accademica, noi – come altri – abbiamo invece puntato su un’architettura di qualità sul campo. È questo lo stimolo che ci ha tenuti insieme negli anni: il progettare e costruire mantenendo una qualità architettonica che continuasse a entusiasmarci.
Sul fronte del cantiere e dei materiali, quali differenze si notano rispetto all’estero?
L’Italia è sempre stata caratterizzata da una grande tradizione costruttiva. Recentemente, tale attitudine incarnata dalle maestranze ha comunque influenzato positivamente anche le nuove generazioni di operatori immigrati che sono man mano subentrati. All’estero invece ci sono minori abilità e minore capacità di trasmettere le conoscenze. Tuttavia, ciò che è sempre stato carente sui nostri cantieri è l’aspetto della sicurezza: vista non solo come problema etico inerente l’incolumità degli addetti ai lavori ma anche come problema di ordine e trasparenza. Il cantiere ben organizzato è quello che non ha ritardi o battute d’arresto dovuti a improvvisazione; è quello in cui si ottimizzano i tempi e i processi produttivi, ottenendo così delle economie. Il cantiere meglio organizzato è anche quello in cui sono ridotte al minimo le zone d’ombra. Sta qui il grande problema dei lavori pubblici in Italia che, nonostante le normative, permettono invece l’insinuarsi del malaffare.
Rispetto alle vicende effimere delle mode da un lato e, dall’altro, alle esigenze di flessibilità e reversibilità, in che termini si può affrontare oggi il tema della durata di un’architettura?
Guardando alle città italiane, trovo che l’aspetto più appassionante sia la capacità dell’architettura di presentare caratteri consolidati, sapendosi al contempo rinnovare ma mantenendo tuttavia un rapporto di continuità con la storia. Roma è l’esempio emblematico di un organismo urbano capace di rigenerarsi e stratificarsi sempre a partire dalla proprie fondamenta: paradossalmente, ciò è avvenuto ancora anche nel ventennio fascista. Dopo, invece, hanno prevalso la devastazione del territorio e l’assenza di qualità del costruito.
L’architettura deve poter durare secoli ma, al contempo, dimostrarsi pronta, dopo un periodo non troppo lungo, a essere trasformata. Ciò a cui non bisogna cedere è l’idea di congelamento. In Oriente c’è un’idea della sostituzione che è molto forte e impedisce un discorso di valorizzazione patrimoniale tout court. Per conservare la propria storia bisogna anche saper discernere tra valori permanenti e non.
Per concludere, tre parole chiave per l’architettura del futuro.
Contesto, identità, qualità.
Lo studio Piuarch è stato fondato a Milano nel 1996 da (in ordine da sx nella foto) Gino Garbellini (nato a Tirano nel 1964, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano nel 1989), Francesco Fresa (nato a Roma nel 1963, dove si è laureato in Architettura all’Università La Sapienza nel 1990), German Fuenmayor (nato a Caracas nel 1962, laureato in Architettura all’Universidade Central de Venezuela nel 1985) e Monica Tricario (nata a Milano nel 1963, dove si è laureata in Architettura al Politecnico nel 1989).
Principali cantieri e realizzazioni: per Dolce & Gabbana oltre 40 boutique nel mondo, la sede aziendale a Milano e il sito di produzione a Incisa val d’Arno (Firenze); edificio Givenchy a Seul; edificio “Quattro corti”, poi sede Gazprom a San Pietroburgo (Russia); edificio “Onda bianca” nell’area di Porta nuova, Milano (esito di concorso); padiglioni per Enel e Caritas all’Expo 2015 di Milano; sede Gucci nelle ex Officine Caproni a Milano; ampliamento del Collegio di Milano (esito di concorso; in cantiere); nuovo polo congressuale a Riva del Garda (Trento, esito di concorso; in cantiere); riqualificazione del Palazzo del Credito Italiano in Piazza Cordusio a Milano; riqualificazione del supermercato Coop ad Arezzo; ampliamento della Latteria sociale Valtellina a Postalesio (Sondrio; esito di concorso).
Con progetti presentati all’interno del Padiglione Italiano, lo studio ha partecipato alla 12°, 13° e 14° edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Inoltre, ha ricevuto il premio “Architetto Italiano 2013” assegnato dal Consiglio Nazionale degli Architetti in collaborazione con il MAXXI di Roma.
INCONTRI CON LA GENERAZIONE DI MEZZO DI ARCHITETTI ITALIANI: PUBBLICATI IN PRECEDENZA
OBR Open Building Research: la nostra intervista a Paolo Brescia, di Davide Borsa
5+1 AA: la nostra intervista a Alfonso Femia, di Marco Adriano Perletti
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concorsi , Milano
Last modified: 25 Gennaio 2017
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