Un progetto editoriale e curatoriale che punta ad illustrare la ricerca digitale sull’architettura e le sue rappresentazioni attraverso un sito web (e una mostra)
Appare evidente come le possibili declinazioni dell’esporre l’architettura stiano diventando più numerose delle definizioni con cui riconoscerle, fatto che può indurre non raramente in divergenze semantiche tra aspettative del pubblico e intenzione dell’operazione. Ecco perché «Unfolding Pavilion» va letta al di là della sua manifestazione estemporanea – una mostra di breve durata, dal 26 al 31 maggio scorsi a Venezia presso la Casa alle Zattere di Ignazio Gardella – come esposizione di un progetto di ricerca editoriale curato da Daniel Tudor Munteanu e Davide Tommaso Ferrando che si nutre attraverso il sito e i social dedicati. L’idea segue un approfondito lavoro editoriale di Ferrando del 2014, pubblicato sul blog Vibok Works come raccolta d’interviste anche ad alcuni degli autori poi qui esposti «che intende investigare su ciò che sta dietro a progetti editoriali rivolti all’architettura e basati sull’uso anche sperimentale dei social network come Tumblr, Facebook, Instagram».
Tale prospettiva è stata mantenuta in «Unfolding Pavilion», prima prova espositiva per entrambi i curatori, in cui si è scelto di aprire e rendere visibili – to unfold – progetti di ricerca (definiti col termine inglese curated archives) con cui architetti, disegnatori, pensatori riflettono e sperimentano sull’immagine dell’architettura e la sua rappresentazione, elaborandone i contenuti in atlanti e archivi digitali, condivisi su piattaforme social.
Gli oltre 30 autori, di diversa provenienza – tra cui Fabio Alessandro Fusco, Luca Galofaro, Beniamino Servino, Davide Trabucco, Michael Abrahamson, Socks, Fala Atelier, Charles Young, Andrew Kovacs, Graham McKay, Shinichi Waki – sono stati invitati a rendere materica la propria ricerca nata digitalmente, tentando una sfida allo spazio del piccolo appartamento di Gardella. Il risultato allestitivo talvolta può apparire ingenuo, caricato di eccessiva sintesi teorica o mancante del perfetto riscontro materico (Waki) oppure molto lontano dal nucleo da cui la ricerca si sviluppa (AQQindex). In altri casi invece, gli autori riescono bene a restituire senso e forma fisica all’apparato speculativo che nutrono online (Galofaro, Servino, Young).
Tuttavia, se si interpreta «Unfolding» come una tesi assertiva, si rischia di equivocarne la comprensione. Sembra invece quanto mai opportuno voler considerare l’intera operazione quale ipotesi ricognitiva che ribadisce l’attitudine dei curatori ad individuare sperimentazioni editoriali connesse alla cultura immaginifica dell’architettura contemporanea, e al contempo coglierla come strumento antologico di ciò che viene inteso oggi come archivio. Un database di database, attraverso cui mostrare il processo di una ricerca in divenire e non necessariamente la sua conclusione, capace di sollecitare riflessioni sui termini che definiscono le dinamiche espositive del contesto contemporaneo.
[…] «UNFOLDING PAVILION» di Lucia Bosso […]