Il curatore del primo Padiglione del Marocco alla Biennale del 2014 manifesta il suo stupore per la presenza, nella mostra principale di questa edizione, di un “padiglione del Sahara Occidentale”, denunciando «uno sfrontato progetto di propaganda» e «una fantasia pericolosa»
Quando l’impegno non era uno stile, ma una causa. Questa Biennale avrebbe dovuto essere la Nostra Biennale. La Biennale di un’architettura radicata nel mondo, che non rifiuta il suo impegno politico, il suo coinvolgimento in una dimensione sociale e umana, e che vuole esistere all’interno di un’economia reale. Non possiamo che essere d’accordo con la posizione del curatore Alejandro Aravena, con la sua volontà di condividere il proprio percorso personale e la sua ambizione d’individuare degli esempi internazionali, per tentare, in fondo, di costruire una scena architettonica alternativa. Ciononostante, questa rapida globalizzazione dell’argomento di riflessione proposto dalla Biennale di quest’anno porta inevitabilmente ad approcciare le situazioni e i luoghi in maniera generica, mettendo in secondo piano la vera natura dell’impegno architettonico, ovvero la profonda conoscenza dei territori. Diventiamo così ostaggi di un’architettura ben pensante, la quale fa sparire la dimensione critica del progetto e produce un linguaggio architettonico che estetizza le piaghe della miseria umana. Possiamo quindi dire, mostrare e distorcere tutto, a patto che ci diamo un’apparenza di militanza.
Buonismo e ingenuità. Quando il curatore e la Biennale autorizzano la realizzazione, nei Giardini, di un padiglione dedicato al “Sahara Occidentale”, si passa da un pensiero critico e militante a uno sfrontato progetto di propaganda. Mi spiego meglio. Essendo stato curatore del padiglione del Marocco nel 2014, sono testimone della precisione del regolamento della Biennale riguardo le relazioni diplomatiche e bilaterali che permettono la realizzazione di un padiglione nazionale. Ciò riguarda ovviamente i paesi esistenti, riconosciuti… E legittimamente rappresentati. In altre parole, non si sarebbe potuto costruire, ad esempio, il padiglione della repubblica indipendente Veneziana o Ticinese. La nozione di uno stato del Sahara Occidentale costituisce una fantasia pericolosa; priva di una base storica, tale nozione si è semplicemente infiltrata nel processo di decolonizzazione del Marocco. Delle popolazioni saharawi le quali vivono in condizioni disdicevoli, già letteralmente prigioniere all’interno dei campi in Algeria, dove si trovano private dei diritti fondamentali, sono qui prese in ostaggio in nome di un progetto personale del quale è difficile individuare la legittimità e la pertinenza.
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Ambiguità o ambivalenza? È necessario discutere di qualsiasi argomento, e lo studio di questi campi di rifugiati è un tema appassionante; ciononostante il discorso deve essere affrontato in maniera competente, equilibrata e perché no… architettonica. Questa installazione, volontariamente indipendente dal padiglione centrale ai Giardini, causa delle ambiguità a motivo del suo posizionamento nei Giardini. Manuel Herz, uno degli 88 invitati da Aravena per la mostra principale e curatore del «padiglione» insieme alla National Union of Sahrawi Women, afferma che tale «ambiguità non è casuale» ma è un gesto politico volontario. Ci si chiede: gesto politico rivendicato da chi? Una formale presa di posizione, sconnessa dalla sostanza di questo imperdibile appuntamento della scena architettonica mondiale. A voler forzare l’architettura in una dimensione politica rischiamo di dimenticare di fare architettura.
Leggi l’articolo in lingua originale, pubblicato su «Le Courrier de l’Architecte»
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alejandro aravena , biennale venezia 2016 , reporting from the front
Last modified: 8 Giugno 2016
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