Il padiglione propone una riflessione sul modello di sviluppo della casa nazionale, promosso dal governo negli anni settanta come residenza urbana per le popolazioni nomadi
Yasser Elsheshtawy è professore associato di Architettura alla United Arab Emirates University, dove insegna dal 1997. Nel 2004 conia il termine “Dubaization” (aggettivo che denota una città che si sviluppa con architetture spettacolari e fuori contesto) per definire l’influenza, positiva e negativa, del modello Dubai nello sviluppo urbano contemporaneo e studia il fenomeno nell’Urban Research Lab da lui fondato nel suo ateneo. Con Tranformations: the Emirati National House propone al Padiglione EUA una riflessione sul modello di sviluppo della casa nazionale Sha’abi proposto dal governo negli anni settanta come residenza urbana per le popolazioni nomadi del paese.
La presenza degli Emirati Arabi Uniti alla Biennale è abbastanza recente. Mi pare che il 2009 sia il primo anno a fronte però di una relazione culturale che trova le sue origini molto lontano nella storia. Venezia in particolare è stata nei secoli la “porta” per il medio oriente, e il mondo arabo e quello italiano hanno avuto proficui scambi sul piano culturale e commerciale. Come vede questa relazione e qual è il suo personale rapporto con Venezia?
Io sono originario dell’Egitto, la mia città è il Cairo ma sono cresciuto in Germania e tutte le volte che, con la mia famiglia, facevamo ritorno in Egitto, c’imbarcavamo a Venezia alla volta di Alessandria. Questo succedeva negli anni settanta. Sono poi ritornato alla Biennale di Architettura del 2014 e poi negli ultimi mesi per questa edizione. Tornando ai rapporti fra Venezia e il mondo arabo e islamico è vero che la partecipazione degli Emirati è molto recente, ma ad esempio l’Egitto è presente dagli anni cinquanta con il proprio padiglione, unico paese arabo a quel tempo. Gli Emirati sono del resto una nazione molto giovane, diventata tale solo nel 1971. La loro partecipazione alla Biennale prima nel 2009 nell’Arte e poi nell’Architettura riflette la crescita del paese nel campo culturale. Infatti c’è chi afferma che il baricentro culturale del mondo arabo si sia spostato dalle tradizionali nazioni asiatiche direttamente al Golfo. Vediamo che ci sono altri due paesi del Golfo che prendono parte, il Kuwait e il Bahrein, cosa che mi pare confermi la crescita di questi stati.
Nel nostro immaginario collettivo l’architettura degli Emirati è quella di nuove città scintillanti dagli alti grattacieli che disegnano straordinari skyline. Tuttavia, ci pare che in questa Biennale Lei voglia partire da un punto differente, dalla riflessione sull’architettura tradizionale e in particolar modo dal modello di casa Sha’abi. Perché questa scelta?
Proprio perché l’immagine dell’architettura del Golfo è qualcosa di nuovo e spettacolare ma anche di breve respiro, in qualche modo noi vogliamo allontanarci da questa idea. Questo ci è stato suggerito dal tema proposto dal curatore Alejandro Aravena. Tutte queste nuove realizzazioni non credo siano appropriate. Ma vorrei dire che il nostro interesse non è proprio centrato su ciò che viene chiamato tradizionale, storico. Se guardiamo a ciò che viene proposto come tale in verità non è molto chiaro. È un adattamento di elementi architettonici raccolti qua e là. Gli Emirati non hanno in realtà sviluppato un patrimonio di architettura tradizionale propria. In questo specifico caso, le case alle quali c’interessiamo nascono sulla base di un modello assolutamente modernista: molto semplici, modelli costruttivi moderni prefabbricati. A causa delle modifiche poi apportate dagli abitanti, queste costruzioni hanno rispecchiato la loro cultura, in questo senso potremmo dire che sono tradizionali, o che comunque hanno la potenzialità di esserlo. Altre aree negli Emirati, ad esempio a Dubai Rashidiya, hanno le torri a vento ed i mulini: quelli sono gli elementi ai quali si pensa quando si parla di architettura tradizionale, architettura che è comunque molto limitata. Noi guardiamo ad un fenomeno molto più ampio che anche se non ha gli elementi tradizionalmente ritenuti tali, alla fine connota, anche grazie ai cambiamenti nel tempo, la cultura di chi vi abita. Questo è il motivo per il quale ci siamo interessati a questo fenomeno, per dare una visione diversa dell’architettura negli Emirati.
Quindi queste case Sha’abi fanno parte del processo di modernizzazione del paese. Un modello nato negli anni sessanta e che è ancora in fase di sviluppo grazie anche alla sua grande flessibilità.
Il modello prese avvio nei tardi anni sessanta con la rapida urbanizzazione che avvenne in particolare ad Abu Dabi e Dubai. Il programma prese il via ufficialmente con la nascita della nazione nel 1971 ed ebbe varie fasi. All’inizio si trattava di una semplice tipologia a corte interna con una serie di stanze che vi si affacciavano. Negli anni settanta vi furono una serie di cambiamenti: ad esempio la superficie divenne più ampia. Lo sviluppo continuò negli anni ottanta ed è arrivato sino ai nostri giorni con soluzioni molto più elaborate e superfici sempre più grandi. Ma a noi interessa molto di più il modello degli anni settanta. La sua evoluzione sino ad oggi.
Lei trova che sia stato un modello positivo? Glielo chiedo perché, come Lei sa, nel dibattito architettonico occidentale il modello di sviluppo urbano a casa unifamiliare è stato spesso criticato in termini di utilizzo del suolo e di socializzazione…
Sì, ha ragione per diversi motivi. Specialmente oggi, se guardiamo a come è stato sviluppato, ci rendiamo conto che non è un modello sostenibile a causa delle infrastrutture necessarie e della dispersione urbana. Ma ai suoi inizi la scala era relativamente piccola e dobbiamo pensare che gli abitanti di queste case erano beduini, nomadi che viaggiavano nel deserto che non avrebbero accettato di abitare in contesti urbani fatti di edifici multipiano. C’era il territorio, il deserto, c’erano le risorse ed il modello si sviluppò così con un certo successo e lasciandoci alcuni insegnamenti.
Quindi questo modello può avere un futuro i termini di sviluppo?
Non esattamente. Se guardiamo a quello che accade oggi, le case di allora sono abbandonate dagli abitanti in quanto superate da quelle che il governo sta realizzando: molto più grandi, rifinite e lussuose. Al di là della memoria urbana, penso che le prime tipologie ci lascino una lezione di termini di flessibilità e adattabilità, avendo in sé una progettualità senza fine. Questo è il punto critico: che venga realizzato nello stesso modo o in modo diverso, disegnare case per la gente dovrebbe avere queste caratteristiche per beneficio alla pratica corrente.
Giusto per capire: quanto erano grandi queste case all’inizio e quanto lo sono oggi?
All’inizio i lotti erano di 18×18 metri e l’area costruita pari al 30%. Negli anni aumentò a 45×45 metri per arrivare anche a 60×60, ma poi tornare allo standard governativo attuale di 45×45 che è comunque molto grande e non sostenibile.
Quali sono i modelli di disegno urbano di questi agglomerati?
La forma urbana deve molto ai principi di planning di quell’epoca. Su una griglia vi è una strada di distribuzione e poi un cul de sac lungo il quale le case sono dislocate. Un aspetto interessante era dato dal fatto che quando il governo le assegnava, permetteva ai membri di una stessa famiglia o di una stessa tribù di abitare gli uni vicini agli altri, in modo da incoraggiare la formazione di una comunità e per preservare i legami familiari. Da un punto di vista del disegno urbano le planimetrie degli insediamenti non sono particolarmente interessanti, ma lo sono di più i singoli edifici dal punto di vista architettonico.
Come allestirete il padiglione per investigare questi temi?
Il padiglione degli Emirati è all’interno della Sala d’armi all’Arsenale. Prima di tutto non vogliamo che niente nel padiglione ricordi temi tradizionali o supposti tali, come ad esempio è successo all’Expo. Vogliamo un design molto moderno che guardi al futuro. Vogliamo ricreare un’esperienza spaziale che rievochi il percorso interno ad una casa. L’area è divisa in vari spazi che possono riproporre le stanze di una casa, una dentro l’altra mantenendo la prospettiva generale in modo da evitare la sensazione di uno spazio chiuso. Questo il concept generale, che è basato su una griglia spaziale che richiama quella delle Sha’abi houses ed è realizzata con una teoria di travi a soffitto. Anche il layout si rifà alle ricerche che abbiamo compiuto. Abbiamo una prima sezione che riguarda le origini e la storia delle Sha’abi houses e che ci conduce alla sezione della città, la quale ci riporta alla scala urbana secondo la quale sono disegnati questi insediamenti. Poi la sezione vera e propria dedicata alla casa e alle sue trasformazioni. L’elemento centrale della mostra contiene una ricerca fotografica che abbiamo commissionato ad un fotografo degli Emirati. Queste foto mostrano l’elemento umano, cioè come la gente vive in queste case ed interagisce con l’architettura.
Possiamo quindi affermare che le Sha’abi houses sono l’altra faccia della “Dubaization”?
Sì, nel senso che la “Dubaization” si riferisce alle architetture iconiche e all’urbanizzazione spettacolare: le Sha’abi houses ne sono il controcanto.
Che cosa si aspetta da questa Biennale in termini di discussione e scambio con gli altri paesi?
Vorremo poter discutere sull’architettura nel Golfo poiché gli Emirati sono parte della più vasta area geografica che comprende Qatar, Kuwait, Arabia Saudita, Bahrein. Vorremmo che la discussione si staccasse dai cliché che abbiamo poc’anzi ricordato, per arrivare a questioni più di sostanza e a capire che vi sono elementi dell’architettura e dell’urbanistica che non sono così visibili ma che influiscono direttamente sulla vita di tutti i giorni della gente. Questi elementi ci portano lontano dalla dimensione di artificialità, esclusione e temporaneità che fino ad oggi ha caratterizzato la discussione sull’architettura in questa regione. Questo è il nostro scopo.
Il curatore
Yasser Elsheshtawy è professore associato di Architettura alla United Arab Emirates University, dove insegna dal 1997. Gestisce anche l’Urban Research Lab, che si propone di promuovere ricerche sull’ambiente urbano delle città nella penisola arabica, con centrandosi sugli Emirati Arabi Uniti. Obiettivo principale è documentare lo sviluppo urbano per supportare le scelte di amministratori pubblici, pianificatori, progettisti attraverso dati empirici sui processi. Il laboratorio è stato coinvolto in iniziative come la mappatura del centro di Abu Dhabi, il monitoraggio della crescita di alcune città degli Emirati e la restituzione della partecipazione degli Emirati alle Esposizioni universali. Il lavoro accademico di Elsheshtawy si concentra sulle città e sulle esperienze dei loro abitanti, enfatizzando la componente umana nell’utilizzo degli spazi urbani. È anche interessato nella qualità del contesto urbano e del paesaggio. È autore di oltre 70 pubblicazioni, compreso Dubai: Behind an Urban Spectacle, e ha curato The Evolving Arab City and Planning Middle Eastern Cities. Invitato a presentare le sue ricerche da numerose istituzioni internazionali, tra cui l’Università di Hong Kong, la Columbia University, l’Università di Macao, la Harvard Graduate School of Design, l’ETH di Zurigo e il CCA di Montreal. Il suo lavoro multimediale è stato esposto al museo Guggenheim di New York e il suo blog su dubaization.com, è stato indicato dal “Guardian” fra i più importanti al mondo.
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Last modified: 10 Maggio 2016
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