Alcune riflessioni sulle procedure, sulle scelte culturali e sugli errori da non ripetere
Il nuovo ha un valore?
Per voler conservare tutto, non si sta perdendo qualcosa?
Credo che si conservi davvero solo ciò che sa trasformarsi e riadattarsi, non quello che rimane rigidamente – ma solo apparentemente – uguale a se stesso. Al di là della mia personale posizione, non particolarmente rilevante sebbene costruita attraverso anni di studio ed esperienza, e condivisa da molta letteratura architettonica e non solo, vorrei testimoniare di avere assistito, dopo il terremoto del maggio 2012, ad una seconda grave perdita, oltre a quella, a tutti evidente, dei danni subiti. L’energia positiva iniziale, il “nuovo” annusato sulle macerie come possibile rinascita, l’opportunità di trasformare il danno in occasione di cambiare, innovare, crescere, è ad oggi, nella gran parte dei casi, svanita. Penso che il problema sia principalmente culturale; viviamo in una cultura teorica che non serve alla vita reale delle persone e, reiterata su precetti e svuotata di realtà, analizza, osserva, documenta, classifica, ma paralizza l’agire. L’iniziale “dov’era ma non com’era” ha presto lasciato il posto, attraverso continui cambi di persone e orientamenti (che ha pure rallentato gli iter dei progetti), ad una richiesta esasperata di ripristino che non sottolinea la riconoscibilità del nuovo e non ne promuove l’autenticità, come invece richiederebbero i principi della Carta del restauro del 1972. Ad esempio, si chiede di rifare oggi, con stessa forma ma, spesso, per necessità tecniche, altri materiali, frontoni con relative modanature e cornici o volte, o di non fare capriate lamellari; di conservare manufatti – pavimenti, coperture, travi lignee, infissi… – i quali, oltre che danneggiati dal sisma, sono stati fatti in povertà, spesso rimaneggiati, o recenti e non di particolare valore.
Accanto al patrimonio fisico non bisogna anche tutelare il libero pensiero, la possibilità di fare con le convinzioni e le possibilità del proprio tempo? Fino a che punto si può entrare nel lavoro di progettisti che firmano il progetto e se ne assumono la responsabilità, imponendo loro scelte, specie per aspetti strutturali? È necessario tornare a riferire le parole alle cose reali; invece i comuni si arrabattano per trovare strade che aggirino artificiose definizioni. Ad esempio “Restauro con totale ripristino delle strutture”: è evidente che dietro questi termini c’è confusione e poca chiarezza di pensiero: che restauro è? Che cosa vincola il vincolo posto su una realtà scomparsa? Ripristinare condizioni non più adatte alla vita contemporanea (incongrue o comunque non aggiornate all’uso, economicamente esose fino all’insostenibilità, tecnologicamente-prestazionalmente inferiori a quello che oggi sarebbe possibile fare, sovrapponendo il nuovo al vecchio per stratificazione), anche laddove la materia è persa, è conservare? O non diventa invece indurre i manufatti, svuotati di senso e possibilità, costretti a iter burocratici di anni, a morti lente? La logica stringente del pagare lo stato di fatto non si è rivelata sempre vincente. Gli enti hanno, a volte, richieste che vanno in direzioni opposte. Si chiede di procedere con impegnative opere di restauro da una parte, ma non finanziate dall’altra: se la proprietà decidesse allora di lasciare i ruderi non sarebbe peggio? La responsabilità non è rendere i processi fattibili? Sono stati spesi fondi importanti in messa in sicurezza di chiese senza particolare valore artistico che rimarranno ruderi, perché mancano i finanziamenti per recuperare tutto. È necessario scegliere cosa conservare, la non scelta è un male non evidente ma diffuso ed estremamente pericoloso.
Il tempo, parametro della vita umana
La grande mole di ordinanze per nuove normative, i tanti documenti richiesti, il dettaglio misurato dei parametri delle perizie… La fitta maglia burocratica, oltre che irrigidire e rallentare la quotidianità, ha davvero impedito la speculazione, le infiltrazioni mafiose? Per esempio, è stata giustamente richiesta l’iscrizione alle White list – ma fino a fine 2015 non si è posto divieto ai subappalti anche totali. Comuni, Regione, Soprintendenza sono tuttora rallentati dalla burocrazia messa in piedi. Le pratiche hanno tempi di risposta medi di 4-6 mesi, si assiste a continue richieste di integrazioni, spesso su cose impossibili da produrre (tipo integrare i rilievi in condizioni non possibili, od effettuare misurazioni dettagliate in fondazioni ed in pareti fuori piombo di edifici in crollo), o già prodotte ma non capite. Ogni tre mesi si arriva così ad inevitabili proroghe e spostamento dei termini. A quasi quattro anni dal sisma gli edifici maggiormente danneggiati e quelli vincolati stentano tuttora ad aprire i primi cantieri. Le situazioni di messa in sicurezza iniziale necessitano di continue spese di manutenzione e gli affitti dei ponteggi stanno diventando elevatissimi.
Euro-energia e quotidianità
Continuano a tutt’oggi le assunzioni, spesso di giovani di prima esperienza, ad esaminare progetti complessi, per far fronte all’enorme istruttoria messa in piedi. Buona notizia per l’occupazione giovanile (anche se parliamo di contratti con rinnovi mensili o al massimo annuali) ma a distanza di anni i soldi devono ancora arrivare a molti che hanno subito il danno. Qualcuno rimane sfollato, mentre si continua a finanziare chi fa l’istruttoria: non sarebbe stato meglio entrare meno nel dettaglio di progetti e computi e stabilire subito una cifra omogenea sui mq, magari più bassa? Tanto il 100% promesso non arriva neanche così. Si assiste a continue riduzioni su cifre già stanziate dai piani, richieste di revisioni e dichiarazioni di non finanziabilità su opere necessarie, quali cerchiature di fondazioni, quantità di catene, di capriate, elettrificazioni di finestre alte, numero di prese elettriche… Cifre ridicole su opere utili: è su questo che volevamo risparmiare?
Le puntate precedenti dell’inchiesta (a cura di Matteo Agnoletto, Luigi Bartolomei e Paola Bianco)
Emilia, a che punto è la ricostruzione? (di Matteo Agnoletto, Luigi Bartolomei e Paola Bianco)
Ricostruzione in Emilia: i numeri e le procedure (di Paola Bianco)
“Spaesati a casa nostra”: glossario della ricostruzione in Emilia (di Sandra Losi)
Ricostruzione in Emilia: occasione persa di riassetto territoriale (di Paolo Campagnoli)
La ricostruzione in Emilia, un affare per le mafie (intervista di Paola Bianco a Federico Lacche)
Ricostruzione in Emilia: il ruolo della partecipazione (di Monia Guarino)
Ricostruzione in Emilia: l’impegno del volontariato tecnico (di Paola Bianco)
Mauro Frate: così ricostruisco in Emilia i paesaggi del welfare (di Sabina Tattara)
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Last modified: 27 Aprile 2016
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