Che ritratto emerge da una prima lettura dei principali obituaries pubblicati dopo la scomparsa di Zaha Hadid?
Nei giorni successivi alla scomparsa di Zaha Hadid si è formata un’antologia internazionale di obituaries che riflettono i punti di vista più diversi, per cultura, età, ruolo professionale di chi ha li scritti (uomini in parte maggiore, si direbbe). Ne emerge nel complesso un ritratto estremamente sfaccettato, a cui è difficile nell’immediato aggiungere qualcosa ma da cui è possibile estrarre tre temi, che costituiscono inevitabilmente le basi per una sua lettura critica postuma. Peraltro è lo stesso concetto di postumo a non essere ovvio, di fronte ai quasi quaranta progetti, perlopiù di grande scala, che lo studio Zaha Hadid Architects ha in corso sotto la direzione di Patrick Schumacher, partner professionale di Hadid e figura chiave nella crescita vertiginosa dello studio durante gli ultimi quindici anni.
Proprio su questo punto emerge un primo tema, dilemmatico, cioè la distanza più appropriata per raccontare una progettista che ha fondato la propria fortuna in parte cospicua sul carisma personale. Occorre inserire Hadid in una trama collettiva e in un contesto, o è importante, o addirittura imprescindibile, fondarsi su ricordi in presa diretta? Tra gli interventi svolti in questa seconda chiave, l’intervista a Rem Koolhaas raccolta da Dezeen copre il periodo più lungo della biografia di Hadid, in cui Koolhaas è l’unico ad aver probabilmente svolto, fino a un certo momento, un ruolo di mentore. Forse è da questo ruolo che deriva la tesi più provocatoria della propria lettura, vale a dire che l’architettura di Hadid vada vista nella tradizione islamica, non in quella occidentale, come invece fanno la maggioranza degli interventi, per esempio quello di Carlo Ratti (su «Domenica» de «Il Sole 24 Ore») che elogia come “barocco tecnologico” i suoi edifici esasperatamente curvilinei degli ultimi anni.
A questo proposito si profila un secondo tema, spesso menzionato ma poco discusso nei commenti, pur attenendo a una rinnovata reine Sichbarkeit di cui Hadid è stata portatrice, nel suo affrontare l’architettura come fenomeno innanzitutto estetico. Si tratta del passaggio dalle linee spezzate, che hanno dominato i suoi progetti fino a buona parte degli anni novanta, alle curve continue che l’hanno trasformata in icona trionfante dell’approccio parametrico all’architettura. È un tema che sembra intersecarsi con quello della distanza da cui si scrive su Hadid: se prevale una visione ravvicinata, si tende a far derivare il passaggio da una volontà di forma, di cui le formule parametriche e i software 3D sarebbero stati lo strumento. Se si allarga invece lo sguardo allo studio Zaha Hadid Architects, al suo modus operandi e al ruolo di Schumacher, il rapporto causa effetto tende a ribaltarsi, e le curve vengono fatte derivare dalla fascinazione per tecniche e strumenti percepiti come positivi in sé in quanto nuovi. Tornando al ruolo di Koolhaas, forse un’analogia con un altro Pritzker Prize non europeo potrebbe essere suggestiva sul tema: come Oscar Niemeyer nel suo progressivo distacco da Le Corbusier è andato verso la prevalenza delle linee curve, così è stato per Hadid nel suo progressivo distacco da Koolhaas. In entrambi i casi si è configurato uno spostamento dalla prevalenza del programma a quella del segno.
Un terzo tema, legato di nuovo alla persona di Hadid emerge invece, in particolare, dai commenti più critici, imbarazzati di fronte alla prima donna, per giunta non occidentale, che ha avuto davvero potere nel mondo dell’architettura ma che ha ignorato le presunzioni del politicamente corretto. In questo imbarazzo si profila forse, di nuovo, la discrasia tra visione occidentale e visione non-occidentale sul ruolo dell’architettura.
Foto di copertina: Zaha Hadid Architects, Issam Fares Institute for Public Policy and International Affairs (IFI) all’Università Americana di Beirut (2013)
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Last modified: 19 Aprile 2016
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