Il premio al femminile, promosso a partire dal 2013 da Italcementi, è volato negli Stati Uniti, ha conferito 3 menzioni d’onore e dato un premio speciale a Gae Aulenti. Perché scegliere una donna come architetto sia visto come un’opportunità e non come un rischio
MILANO. Il 7 aprile si è conclusa alla Triennale con l’affermazione della statunitense Jennifer Siegal la quarta edizione dell’ArcVision Prize – Women and Architecture. Promosso da Italcementi Group a partire dal 2013, quando la vittoria è andata alla brasiliana Carla Juaçaba, l’edizione di quest’anno ha visto il suo compimento con una cerimonia ospitata dal Palazzo dell’Arte e inserita all’interno del programma della XXI mostra internazionale, aperta il 2 aprile.
La motivazione riassume i punti cardine di un’attività che, avviata nel 1988 a Los Angeles con la nascita dell’Office of Mobile Design, l’ha vista «pioniera coraggiosa nella ricerca e sviluppo di sistemi costruttivi prefabbricati, a prezzi contenuti per utenti e aree di intervento disagiati, in grado di ideare e costruire soluzioni efficaci e pratiche e un nuovo linguaggio per una tipologia abitativa mobile e a basso costo».
Un’edizione che ha portato in finale una shortlist composta da 20 architette provenienti da 20 paesi di 4 continenti ha affiancato alla vincitrice tre menzioni d’onore: Pat Hanson dal Canada, Elisa Valero Ramos dalla Spagna e Cazù Zegers dal Cile. È stato inoltre conferito un premio speciale alla scomparsa Gae Aulenti (1927-2012), anche esposta all’interno della mostra W. Women in Design curata da Silvana Annicchiarico e al centro di una mostra monografica curata dalla nipote Nina Artioli e ospitata alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino dal 16 aprile al 28 agosto.
La giuria, come sempre, era composta da illustri rappresentati del mondo disciplinare ed esponenti della parte di “società civile” globale impegnata in contesti e su fronti spesso molto difficili: quattro affermate architette (tutte europee), Odile Decq, Yvonne Farrell, Benedetta Tagliabue e Louisa Hutton, la direttrice del Premio Pritzker Martha Thorne, la giornalista Daniela Hamaui, la sindachessa di Betlemme Vera Baboun, l’attrice e artista indiana Suhasini Mani Ratnam, la presidentessa del Centro Panafricano Kwame Nkrumah Samia Nkrumah dal Ghana e l’imprenditrice emiratina Shaikha Al Maskari.
A pochissimi giorni dalla prematura e improvvisa scomparsa di Zaha Hadid, la conclusione del premio suggerisce alcune considerazioni.
Sul premio stesso, innanzitutto, che ci si augura prosegua e cresca negli anni a venire. Anno dopo anno ArcVision, tramite una rete di advisors locali e il lavoro svolto a Bergamo dalla giuria e dallo staff di supporto, si è consolidato a livello internazionale e ha selezionato per le fasi finali nel corso dei quattro anni circa 100 progettiste che potrebbero costituire una prima mappatura di una generazione di professioniste provenienti da tutto il mondo.
Sulla tematica, in secondo luogo. ArcVision ogni anno premia a livello internazionale un’architetta dalla significativa attività di ricerca e dalla progettazione di eccellenza qualitativa, attenta alle questioni centrali della costruzione e operante in ambiti di particolare complessità. Coglie quindi uno spirito del tempo che, dopo l’accelerata degli ultimi dieci anni, si spinge sempre più verso il riconoscimento del lavoro femminile in un ambito da sempre totale feudo maschile. Ambito che vede nei corsi universitari di Architettura una presenza femminile sempre più massiccia (maggioritaria in molti contesti nazionali) ma percentuali ancora troppo piccole di donne presenti nella professione e alla guida di studi e attività.
Nel recente passato ci sono stati alcuni passaggi fondamentali: nella carriera professionale da record di Hadid e nella richiesta (poi rigettata) di riconoscimento del Pritzker 1991 di Robert Venturi anche a Denise Scott Brown, ma anche in progetti di cooperazione e ricerca finanziati dall’Unione europea come MoMoWo o nell’attenzione che proviene anche dalla campagna globale e dai premi del progetto Women in Architecture che, partito negli Stati Uniti in seno all’«Architects’ Journal», è cresciuto nel tempo trovando come partner «The Architectural Review».
Come osserva Martha Thorne, i buoni premi si riconoscono per la capacità di dire qualcosa sulla società nel cui ambito si sviluppano.
Un terzo spunto sottende, infine, considerazioni allargate sulla condizione femminile che si estendono oltre l’ambito prettamente disciplinare, in cui la presenza-testimonianza d’importanti giurate progettiste come Decq, Farrell, Hutton e Tagliabue consentirebbe anche un raffronto generazionale, seppur minimo. La condizione femminile nel mondo registra ancora differenze importanti tra uomini e donne. Sull’argomento sono molte le suggestioni emerse da questa edizione del premio, dalle premiate e dalla giuria: sono necessari una maggiore rappresentanza all’interno delle strutture della democrazia, pari possibilità di accesso alla formazione e pari trattamento economico sul lavoro, nonché un maggiore supporto da parte delle istituzioni, soprattutto nel conciliare vita professionale e privata. Le donne, infine, devono avere maggiore fiducia in sé e nelle proprie idee e possibilità affinché, riprendendo le parole di Decq, “scegliere una donna come architetto sia vista come un’occasione e non come un rischio”. Il percorso è ancora lungo, ma la strada è segnata.
About Author
Tag
premi , triennale milano
Last modified: 14 Aprile 2016