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Carlo OlmoWritten by: Città e Territorio

Il caravanserraglio?

Il caravanserraglio?

La ricezione dell’’Expo milanese appare, a chi voglia soffermarsi un solo momento, quasi un paradigma del modo con cui oggi si vive il tempo.

Non sembri una riflessione troppo astratta. È sufficiente interrogarsi sul perché nessuno degli attori di una scena che è sempre stata tale dal 1851, dalla prima Esposizione universale a Londra, neanche si ponga la domanda, se la parte che recita in commedia, non sia già stata scritta. Freud ricordava che la ripetizione è la madre di tutte le patologie. E il teatrino dei pupi cui stiamo assistendo, nasce dall’incapacità di vivere un tempo che non sia sincronico, senza storia. “Non starò ripetendo osservazioni, ricorrendo a retoriche, usando immagini che erano già logorate nella lunga storia delle esposizioni universali alla fine dell’Ottocento, consumate sulla pista del gran ballo Excelsior che a Parigi festeggia l’inizio del nuovo secolo”? Qualche dubbio legittimo potrebbe, forse dovrebbe nascere.
L’evento come strumento per rilanciare un’economia e per ridisegnare una città, sono due retoriche che accompagnano le Esposizioni universali almeno da quella di Philadelphia del 1876. E che siano retoriche lo si sapeva già, almeno dall’Esposizione parigina del 1878, dove Viollet-le-Duc allestisce la prima mostra sul restauro delle proprie opere, ben sapendo, lo testimonia la sua corrispondenza, che l’esposizione contava come medium, ben più dello stesso contenuto del suo messaggio. O a Chigago nel 1893 l’Esposizione fu pensata anche per contrapporre a una narrazione, non solo letteraria, che voleva la città americana essere black, un’Esposizione come white city, radicalizzando la funzione retorica, rispetto anche alla rilevante trasformazione urbanistica che l’Esposizione produsse. O ancora a Bruxelles, nel 1958, l’Esposizione riuscì a trasformare un’ormai banalità della fisica, nel simbolo stesso dell’Expo: l’Atomium. Così l’Esposizione universale come un caravanserraglio, litania oggi ripetuta da tanti, è già l’immagine che ci restituiscono due personaggi non minori, come John Ruskin e Gottfried Semper proprio dopo aver visitato l’Esposizione londinese del 1851.
E vale per tanti récit che ci sentiamo ripetere oggi.
L’accusa di etnocentrismo, diventata poi di colonialismo e imperialismo
, si ritrova già nei commenti più salaci alle rue du Caire che dal 1878 popolano la scena delle Esposizioni. O ancora, sono gli impressionisti, esclusi dalla stessa Esposizione, che accusano chi le organizza di escludere le ricerche più innovative, toccando uno dei cuori retorici delle esposizioni: la messa in scena dell’innovazione. Così come l’Esposizione venduta quale occasione di orgoglio nazionale, strumento e occasione di lanciare e rilanciare un’identità nazionale in crisi o discussa, ha nell’Esposizione parigina del 1937 e nei due famosi padiglioni dell’URSS e degli Stati Uniti che si fronteggiavano quasi un’icona. Ma le Esposizioni universali sono anche la fossa di tanti luoghi comuni o di tante semplificazioni critiche.
Chi le affronta, come oggi accade ai laudator o detrattori, che guardano all’Expo come il luogo dove trovare le ricerche architettoniche o tecnologiche più sofisticate, non si avvede che quando ci si opera, come accade allo stesso Gustave Eiffel, si usa l’innovazione per meravigliare: e forse la più grande meraviglia fu la luce elettrica e i suoi giochi, sin dall’Esposizione di Philadelphia… D’altronde il Crystal Palace volutamente presentava la macchina industriale che tutti potevano comprare, non l’ultima inventata. La sola “eccezione” fu il più grande cannone che la Krupp dovette portare due volte, perché il primo giace sui fondali della Manica. O le tante Galeries des machines stupirono prima con la fotografia, poi con i diorama, infine con i primi filmati: con la memoria trasformata in ricordo che si poteva recare con sé, cambiando il rapporto tra il tempo della visita e il tempo e i modi della successiva narrazione.
Ci si potrebbe oggi porre tanti interrogativi, a iniziare dalla possibilità di creare meraviglia o di favorire la serendipity, l’incontro casuale, o d’immaginare che i grandi congressi di bioingegneri o elettromeccanici di oggi si possano tenere durante l’Expo: e se questo avrebbe lo stesso significato in una società in overdose d’informazione. Le Esposizioni universali sono state e sono in primo luogo ed essenzialmente avvenimenti sociali; sono una produzione, più o meno riuscita, di una scena, con attori, trame, scenografie predefiniti.
D’altronde lo stesso principio del padiglione (e forse non solo) chiamato oggi a rappresentare un’idea di nazione che non esiste più, se non per il permanere di una forma organizzativa che nasce proprio con l’affermarsi del nazionalismo, appare un residuo di un passato che è sempre stato più presente del futuro nelle Esposizioni universali. E sarebbe strano non fosse così anche nell’epoca dell’heritage e dei luoghi della memoria ormai dilaganti; e sarebbe strano che tutto ciò non accadesse a Milano.
Come – e lo dico purtroppo – ci sarebbe da stupirsi se chi parla, prima di avventurarsi in retoriche che si vogliono persuasive si documentasse, per sapere almeno se queste non sono state usate magari più di un secolo fa. O se, per parlare nello specifico dell’Expo, prima la si visitasse – e non ci vuole certo uno sguardo distratto – e poi si esprimessero consensi o critiche. Ma la cultura sincronica e del tweet o dell’sms richiede che si anticipi il giudizio e si condivida l’emozione, non che si offra una meditazione critica. Questo invece cercheremo di fare offendo meditazioni dopo aver rivolto più di uno sguardo alle architetture, ai contenuti e alle ambizioni che sempre un’Esposizione universale reca con sé. Con modestia e ironia. Uno dei documenti più belli che un’Esposizione ci abbia lasciato è il diario, falsamente anonimo, di un visitatore giornaliero all’Esposizione di Parigi del 1900: schizzi e commenti ironici, non sarcastici, perché sin dalla più straordinaria Esposizione universale, quella parigina del 1867, il non prendersi troppo sul serio ha accompagnato chi godeva di ricostruzioni dei paesi esotici, che sapeva animati contemporaneamente da Jules Verne e dalla scuola archeologica di Atene o di Roma.
Con un senso del tempo storico e del ruolo dell’immaginazione ben distinti; percezione che oggi appartiene davvero a pochi.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 9 Ottobre 2015