La ricerca architettonica da tempo sembra essere stata confinata ai margini della società contemporanea. La stagione delle archistar dagli anni ’90 al 2008, cioè l’inizio della crisi economica che ci attanaglia, ha rappresentato la definitiva delegittimazione della prassi architettonica collettiva a favore della ricerca formale pura degli architetti-stilisti. Una stagione che ha trasformato radicalmente i rapporti tra la committenza (pubblica e privata) e gli architetti. La prima trasformazione è stata ridurre l’architettura in un attributo estetico, accessorio, che può essere richiesto dalla committenza oppure eclissato a seconda di una sua potenziale commercializzazione. La seconda trasformazione, conseguente alla prima, ha diviso gli architetti in due categorie: coloro che dell’attributo estetico hanno fatto un brand management e tutti gli altri, cioè coloro che, privi di questo valore aggiunto, sono rimasti alla mercé della committenza.
L’effetto di questa trasformazione è evidente soprattutto in Italia dove da tempo la sovrastruttura economica, supportata dalla normativa sugli appalti, delinea le scelte politiche ed economiche delle trasformazioni del territorio e delle città. Solo raramente, e sempre e solo affidandosi a una delle archistar oramai in declino, tali trasformazioni si scostano dall’edilizia scadente delle nostre periferie.
In questo scenario, è diventato sempre più difficile per gli architetti “normali” fare architettura di qualità; oramai isolati guardano alla finestra con stupore (e forse invidia) le imprese delle archistar. La ricerca disciplinare, invece, abdicando al suo ruolo etico e sociale, si ritaglia temi marginali: architetture-installazioni, architetture dell’emergenza, ricerche su tematiche socio economiche in sostituzione dell’urbanistica, ecc. Temi marginali che a volte consentono ai protagonisti di mettersi in mostra e qualche volta, sempre più raramente, a far parte del mondo patinato delle riviste, un tempo rampa di lancio delle archistar (gli ultimi in fondo sono stati Shigeru Ban e Alejandro Aravena).
In questo contesto le Biennali di architettura dell’ultimo decennio evidenziano sempre più la marginalità dell’architettura contemporanea. I temi proposti di volta in volta dai curatori sembrano sempre più un grido di dolore subito disatteso dalle proposte degli architetti invitati, più interessati a mettersi in mostra – magari cercando la trovata a volte artistica – che a proporre alternative al pensiero dominante.
Alla vernice della Biennale, dopo aver incrociato le figure ieratiche dei vincitori del Pritzker Prize degli ultimi anni, per un attimo mi è parsa l’immagine di Gloria Swanson, diva del cinema muto, in “Viale del tramonto” e l’architettura di questi anni mi è sembrata come il cinema muto, affascinante e mitologico ma fuori dal tempo.
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