Architettura e fragilità di un capolavoro moderno, costruito da Giancarlo De Carlo in oltre 20 anni. Tra necessari restauri materici, sostituzioni poco riuscite e un rapporto tra spazi da ridefinire
In occasione del 20° anniversario dalla morte di Giancarlo De Carlo (1919-2005) Il Giornale dell’Architettura e archphoto hanno organizzato, con la curatela di Ilaria La Corte ed Emanuele Piccardo, un evento di confronto e dibattito a Urbino, ospiti della Fondazione Ca’ Romanino. Grazie anche alla partecipazione di Marco De Michelis, Gianluca Annibali, Andrea Canziani, Francesca Gasparetto, Andrea Vergano e Michele Roda, l’incontro ha permesso di indagare senso e attualità dell’eredità, culturale e progettuale, di De Carlo. Ma anche di costruire una sorta di osservatorio delle sue architetture più note e significative, che proponiamo come un itinerario critico e orientato a descrivere lo stato di conservazione e di mantenimento.
URBINO. La storia tra Giancarlo De Carlo e Urbino si intreccia in modo indissolubile con le architetture universitarie che hanno trasformato la città. Se il sogno di una “capitale di studi e cultura” si deve alla visione del sindaco Egidio Mascioli e del rettore Carlo Bo, è attraverso l’opera di De Carlo che questa ambizione prende forma concreta, traducendo un progetto politico e culturale in un paesaggio costruito.
Il passato
All’inizio degli anni Sessanta Urbino contava appena 8.000abitanti e oltre 12.000studenti: un rapporto senza eguali in Italia. Serviva un piano straordinario per costruire residenze universitarie adeguate. Secondo le stime di De Carlo, elaborate per analogia con le università inglesi, occorrevano almeno 4.000 posti letto.
Il primo passo fu il Collegio del Colle, costruito tra il 1962 e il 1965 per 150 studenti; poi vennero i Nuovi Collegi – Tridente, Aquilone, Serpentine e Vela – edificati tra il 1972 e il 1983, che portarono la capienza a 1.150 posti. L’insieme, circa 62.000 metri quadrati, assume la scala di un quartiere, concepito per favorire esperienze di vita collettiva e partecipazione. Gli edifici alternano spazi privati, aree comuni e servizi per stimolare la relazione tra gli studenti e, più in generale, tra i Collegi e la città. Come si legge nelle relazioni di De Carlo, l’idea di comunità superava la dimensione accademica per estendersi a quella urbana. Il paesaggio stesso diventa il primo servizio collettivo: un tessuto connettivo che unisce architettura e territorio.
Quando si progettò l’espansione dei nuovi Collegi, De Carlo che aveva notato come gli studenti tendessero a vivere il Collegio del Colle come un albergo, ripensò l’impianto introducendo spazi intermedi tra privato e collettivo, creando delle microcomunità per gruppi di stanze che condividevano servizi comuni, calibrando la scala dall’intimità alla socialità diffusa. Mentre il Colle era un organismo autosufficiente, l’ampliamento successivo genera un sistema articolato, modellato sulle diverse condizioni topografiche. Un disegno, tuttavia, solo parzialmente realizzato: molte attrezzature collettive – mense, bar, biblioteca, cinema, negozi, palestra, piscina – non furono mai attivate, indebolendo la vitalità del complesso.
Il presente
Oggi i Collegi sono riconosciuti a livello internazionale come un capolavoro dell’architettura del Novecento, anche se non godono ancora di alcuna tutela come bene culturale. Nonostante l’alone leggendario di un presunto vincolo d’autore – del tutto infondato – il presente è segnato da interventi spesso casuali, quando non incoerenti.
Basterebbe confrontare gli infissi originali con le sostituzioni in alluminio e PVC; l’accoglienza dei teatrini gradonati della Vela, ancora miracolosamente rivestiti con tappeti di cocco, con la rigida freddezza del parquet che sostituisce il pavimento nel teatro del Tridente; l’inspiegabile idea di verniciare – di grigio – il calcestruzzo a vista; o la sostituzione delle sedute plastiche delle aule con anonime seggioline di compensato piegato. Il risultato è un lento degrado, non solo materico ma culturale.
Un tentativo di inversione di tendenza è arrivato con il Piano di conservazione finanziato nel 2015 e nel 2017 dal programma Keeping it Modern della Getty Foundation, che ha prodotto un’importante base di conoscenze su materiali, strutture e modalità d’uso. La lungimiranza delle università coinvolte e la qualità del lavoro hanno segnato un punto di svolta, almeno sul piano culturale.
Gli esiti più evidenti in questo momento sono gli interventi sui cementi armati del Tridente. Per ciascuna delle diverse tipologie di calcestruzzo il piano prevedeva malte specifiche, formulate con cemento bianco e inerti locali, per riprodurre il più fedelmente possibile l’aspetto e la texture dei diversi originali. Le riparazioni, di forma geometrica, rispettano le scelte operate da De Carlo negli anni ’90 al Colle, ma i risultati appaiono ancora incerti: le superfici nuove, troppo lisce o malamente rigate, risultano estranee alla matericità originaria e non raggiungono la raffinatezza di quell’originale gesto di cura.
A ciò si sommano gli interventi strutturali di miglioramento sismico, che hanno introdotto rinforzi alterando la chiarezza formale di travi e pilastri: forse un’occasione mancata per rendere leggibile una nuova stratificazione del tempo. Il Tridente è oggi l’edificio più trasformato: oltre alle alterazioni materiche si registra la perdita delle leggere scale in tubolare e grigliato che collegavano i nuclei delle stanze, sostituite da ingombranti strutture in lamiera e reti metalliche. Tutto questo in spazi che il piano di conservazione cataloga come di massimo valore.
Le esigenze di sicurezza sono comprensibili, ma questi interventi sembrano ignorare la misura dell’architettura originaria: pesanti e sovradimensionate, annullano la leggerezza dei percorsi e la permeabilità visiva che De Carlo aveva ricercato. In questo modo un adeguamento a una normativa astratta – quanti incidenti sono occorsi finora? – diventa una forma di alterazione spaziale. Negli altri collegi, invece, spazio e materia conservano ancora forza e dignità: il degrado non è irreversibile e tutto sembra in attesa di un progetto capace di restituire senso e accoglienza agli spazi comuni.




Il futuro
Il rapporto tra vita collettiva e spazio collettivo è il cuore della concezione dei Collegi e dovrebbe orientare ogni progetto di conservazione. Eppure tra architettura e utenti si è aperto un divario: gli studenti faticano a leggere le potenzialità di questi spazi, o forse l’architettura propone un modello di vita che non appartiene più al presente.
Le strategie future dovrebbero basarsi sull’osservazione dei comportamenti reali più che su standard astratti. È davvero urgente adattare edifici oggi semivuoti a scenari di sovraffollamento improbabili? O non sarebbe più utile riattivare le aree sottoutilizzate, valorizzare gli spazi già reinterpretati dagli studenti – come alcune coperture divenute luoghi informali di incontro – e ripensare le funzioni in base ai bisogni attuali della comunità? Forse non serve resuscitare i servizi mai nati – negozi, cinema, bar – ma introdurre nuovi dispositivi di vita e lavoro: laboratori, sale conferenze, residenze temporanee per studiosi e artisti. Funzioni capaci di restituire vitalità economica e sociale senza tradire lo spirito del progetto.
La sfida, oggi, è duplice: da un lato conservare un capolavoro nella sua affascinante sostanza di calcestruzzi, mattoni, legni e metalli, applicando accuratamente le intelligenti indicazioni del piano di conservazione; dall’altro riattivare la vita collettiva, quella che De Carlo aveva posto al centro del suo progetto e che sola può dare senso alla sua architettura. Tutto è ancora possibile. Ma serve, prima di tutto, comprendere il paesaggio, la misura e la materia di questa architettura.
Immagine di copertina: Giancarlo De Carlo, Collegi Universitari di Urbino (© Emanuele Piccardo)
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Last modified: 15 Ottobre 2025